economia, lavoro, partito democratico

"Un premier irresponsabile", di Stefano Fassina

È vero che, dopo 20 anni di “Silvio”, come lo chiamano i suoi giornali, non dovremmo più stupirci di nulla. Tuttavia, colpisce la contraddizione tra le due destre ieri a Berlino. Da una parte Angela Merkel, la signora che pur illudendosi di fare da sola in Europa tenta di difendere il modello renano e mette gentilmente alla porta la Fiat quando il dott. Marchionne le presenta, per la Opel, un’offerta di acquisto viziata da pesantissimi costi sociali. Dall’altra, il nostro misero Presidente del Consiglio che sostiene la Fiat nell’ “abbandono” di Torino in caso di vittoria del “no” alle Carrozzerie di Mirafiori. Nessun Capo di Stato al mondo avrebben mai detto che «le imprese e gli imprenditori italiani avrebbero buone motivazioni per spostarsi in altri Paesi». È un’affermazione inaccettabile ed irresponsabile. Sin dall’annuncio di Fabbrica Italia, il Governo Berlusconi si è lavato le mani, invece di svolgere quella funzione di mediazione alta tra interessi economici e sociali diversi, distintiva di un governo democratico. Sin dall’inizio, ha rinunciato alla politica industriale per l’auto. Sin dall’inizio, il ministro Sacconi ha accompagnato la Fiat nell’offensiva per destrutturare il contratto nazionale, indebolire i sindacati, rompere l’organizzazione nazionale delle rappresentanze degli interessi e spostare tutto il peso della competizione globale sulle spalle del lavoro. Non deve essere così. Nel XX secolo, il lavoro ha costruito la sua soggettività nella dimensione della produzione. Attraverso lotte drammatiche, si è prima pensato, poi strutturato, come interesse autonomo dalla proprietà dell’impresa. Ha organizzato capacità di conflitto, senza ideologico antagonismo. Ha dato effettività agli ordinamenti democratici. Poi, il vento della globalizzazione ha, colpo dopo colpo, divelto gli argini nazionali costruiti dalle forze politiche e sociali riformiste per orientare la libera iniziativa economica privata verso fini sociali ed evitare danni alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, come afferma la nostra Costituzione. È scritto nell’art. 41, lo stesso che anche ieri il ministro Tremonti ha proposto nuovamente di abbattere perché anche lui è “riformista” e anche lui ci ricorda che «nello scenario globale che si è aperto, l’Italia ha davanti a sé l’alternativa tra declino e sviluppo. Se si vuole lo sviluppo si deve cambiare». Cambiare. Cambiare. Cambiare. L’unico cambiamento possibile è dettato dai Marchionne, dai Sacconi, dai Tremonti, dai Berlusconi. Anche qualche riformista doc lo ripete: «resistere o cambiare». Anche noi vogliamo cambiare. Ma, vogliamo andare in direzione opposta. Invertire la rotta della regressione del lavoro tracciata da un quarto di secolo. Dall’altra parte dell’Oceano c’è Detroit dove si entra in Chrysler a paga dimezzata. Qui, c’è Pomigliano e Mirafiori. E poi, ci sono le vite di tanti giovani precari. Vogliamo ricostruire, oltre le gabbie nazionali, le condizioni politiche ed economiche per proiettare nel XXI secolo il lavoro come fonte di dignità e di cittadinanza democratica della persona. Vogliamo contribuire a riunire i lavoratori divisi: i padri e i figli, insieme. I Sud e i Nord, insieme. Vogliamo il lavoro. Ma, insieme, dignità.

L’Unità 13.01.11

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“Così si rompe un sistema”, di Cesare Damiano

Non è solo questione di orario di lavoro giornaliero – quello “normale” potrà arrivare fino a dieci ore per turno, più gli straordinari – di pause più corte, di un minor numero di giorni di malattia pagati. L’accordo di Mirafiori segna una rottura senza precedenti nel sistema delle relazioni sindacali che si è venuto consolidando nel nostro paese nel corso dei decenni.
Il nuovo contratto non aderisce al sistema confindustriale e, di conseguenza, nella newco Fiat-Chrysler non è prevista l’elezione dei delegati di fabbrica e solo i sindacati firmatari potranno nominare propri rappresentanti aziendali.
Tradotto in pratica, significa che i lavoratori non avranno il diritto di scegliere, com’è avvenuto fino ad oggi, chi li rappresenta di fronte all’azienda e che la Fiom, che negli stabilimenti torinesi è tuttora il sindacato maggioritario (con il 13% delle adesioni), non potrà sedersi in futuro ad alcun tavolo di trattativa perché non ha sottoscritto l’accordo aziendale.
In questo modo viene ad essere cancellata nei fatti l’intesa interconfederale firmata nel dicembre 1993 da Confindustria e Cgil, Cisl e Uil e si fa strame delle conquiste operaie dei primi anni Settanta culminate nell’intesa Fiat del 5 agosto 1971 che ha regolato la prestazione di lavoro.
Nel testo del ’93, in particolare, si stabilivano le regole della rappresentanza sindacale nelle aziende private del nostro paese. I criteri di base per la partecipazione alle elezioni di fabbrica erano: la sottoscrizione dei contratti nazionali o la raccolta di firme tra i lavoratori per la presentazione delle liste.
La nuova norma, imposta dalla Fiat con la minaccia di dirottare all’estero gli investimenti annunciati per Mirafiori, opera un cambiamento inaccettabile nelle regole della rappresentanza. E costituisce un errore politico rilevantissimo, destinato a ritorcersi in futuro contro la stessa azienda.
La sfida del mercato globale, che nel settore automobilistico è particolarmente difficile, richiede, per essere vinta, il massimo del consenso. Spaccare il sindacato emarginando la componente più forte, oltre che ledere i principi basilari della democrazia, significa imboccare la direzione opposta. Prima che sia troppo tardi, urge una correzione.
Ha ragione il Capo dello Stato quando auspica un modo più costruttivo di discussione. E, soprattutto, quando afferma la necessità di affrontare il nodo della rappresentanza sindacale. L’appello di Napolitano va ascoltato. In parlamento alcuni esponenti del Partito Democratico hanno, da tempo, depositato proposte di legge finalizzate a recepire con una legislazione di sostegno le regole relative alla rappresentanza e alla rappresentatività del sindacato, coerenti con il documento unitario definito da Cgil, Cisl e Uil nel 2008. Per ricostruire un sistema di relazioni industriali degne di un paese moderno credo si debba ripartire da qui. Ma per far ciò bisogna tornare a tessere il filo dell’iniziativa politica e riprendere il dialogo.
In questo senso, le ultime affermazioni del ministro del Lavoro, Sacconi, non sono certo di aiuto. Dichiarare che l’accordo del ’93 sulla rappresentanza è morto perché è stato sostituito da quello del 2009, voluto dalla maggioranza delle parti sociali, va contro l’esigenza sostenuta da tutti di avere regole di rappresentanza che garantiscano ai lavoratori di poter scegliere liberamente il proprio sindacato nel luogo di lavoro.
Resta il problema dell’immediato. L’intesa sarà sottoposta al giudizio dei lavoratori questa settimana. Più che un referendum, se si sta alle parole di Marchionne, sembra un ultimatum. Ma la strada è obbligata. Non si tratta tanto di valutare l’intesa nelle sue pieghe (anche se, relazioni industriali a parte, qualche miglioramento sia pure insufficiente, rispetto ai punti più controversi dell’accordo per Pomigliano, c’è). Si tratta, di guardare all’operazione nel suo insieme.
Una vittoria del “no” farebbe saltare l’investimento, fornirebbe al Lingotto l’alibi per delocalizzare e si ritorcerebbe contro i lavoratori, contro Torino e, più in generale, contro l’industria automobilistica italiana. Nel caso di vittoria del “si” al referendum, l’apposizione di una firma tecnica o critica da parte della Fiom, come ha suggerito la Cgil, consentirebbe, invece, di riaprire la partita e, alla Fiom, di restare nel gioco. Non sarebbe, d’altra parte, la prima volta alla Fiat. Già nel 1955 la Fiom si dichiarò disponibile alla firma di un’intesa che non condivideva, motivandola con la necessità di “impedire la manovra e le finalità del padrone”. Una firma per non dividere i lavoratori e per non “escludere la Fiom per un lungo periodo di tempo da ogni forma di contrattazione aziendale”. È una pagina magistrale di storia del sindacato degli anni ’50 contenuta nel libro “Gli anni duri della Fiat” di Emilio Pugno e Sergio Garavini.
E lo stesso avvenne nel 1996, in occasione del rinnovo del contratto integrativo di gruppo, con la firma motivata attraverso “una adesione critica all’accordo” a causa del dissenso della Fiom sul meccanismo del premio di risultato. Certo, è un passo difficile. L’intesa comporta un grosso sacrificio per i lavoratori. Ma Susanna Camusso ha ragione. Se vincono i sì non esistono, a mio avviso, alternative alla firma tecnica. Autoescludersi sarebbe un errore gravissimo.

da Europa Quotidiano 13.01.11