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"Ma noi siamo donne o bambole?", di Irene Tinagli

Molte donne in questi giorni si stanno interrogando sul loro ruolo nella società italiana, come è accaduto ogni volta che, in questi ultimi anni, qualche scandalo sessuale ha scosso il mondo della politica. Eppure la questione del ruolo femminile in Italia ha radici più profonde e diffuse di quanto emerga dalle ultime vicende di cronaca e va ben oltre i confini di Arcore o di via Olgettina. Se l’ennesimo scandalo che coinvolge il premier serve a riaprire il dibattito su un tema così importante, va bene, ma se vogliamo davvero cogliere l’occasione per una riflessione approfondita, non possiamo fermarci lì.

Forse val la pena ricordare alcuni dati resi noti pochi giorni fa dall’Istat e passati quasi sotto silenzio: in Italia una donna su due non lavora e non cerca lavoro. Donne semplicemente «inattive». Si tratta di un tasso di inattività che supera quello di tutti gli altri 26 Paesi europei (con l’esclusione di Malta, se questo può consolare). Specularmente, le donne «attive» sono il 46,3%, un dato che fa vergognare di fronte al 66,2% della Germania, al 60% della Francia, per non parlare del 71,5% dei Paesi Bassi. Perché le donne in Italia non si mettono nemmeno alla prova? Preferiscono veramente altre strade di realizzazione personale (maternità e famiglia, per esempio) o rinunciano a priori perché consapevoli di un Paese in cui i loro sforzi e i loro sacrifici non verranno riconosciuti e non incontreranno gratificazioni né nel settore pubblico né in quello privato?

L’ultimo rapporto del World Economic Forum sulla parità di genere nel mondo del lavoro e delle imprese ci pone al 74° posto, dopo Malawi, Ghana e Tanzania, per fare alcuni esempi. A far scendere il nostro Paese nella classifica è soprattutto la scarsa performance sul fronte delle opportunità di lavoro e di carriera. Una difficoltà legata, secondo i risultati dell’indagine, ad una carenza di servizi di supporto (come gli asili), ma anche alla mancanza di modelli femminili di riferimento e ad un clima generale molto maschilista. E dove potrebbero trovare questi modelli le donne italiane? Tranne alcune recenti eccezioni che iniziano a farsi strada in importanti istituzioni di rappresentanza (Marcegaglia e Camusso), il mondo politico non offre certo grandi esempi. Nonostante il governo possa contare sulla presenza di alcune donne, è indiscutibile che i ruoli chiave della politica italiana restano saldamente in mano a uomini, tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra. La lotta di successione in entrambe le coalizioni ha sempre visto e continua a vedere uomini come protagonisti. Nel centrodestra si sono via via fronteggiati Fini, Bossi, Tremonti, con saltuarie incursioni di Sacconi e Brunetta; al centro Casini, Rutelli raggiunti ora da Fini; identica cosa nel centrosinistra: Veltroni, D’Alema, Bersani, Franceschini, Vendola. Neppure tra i nomi dei giovani emergenti troviamo delle donne. In pole position ci sono Renzi e Zingaretti.

Dove sono le donne? Nel centrodestra sono a far quadrato attorno al premier. Nel centrosinistra hanno appena dato avvio ad una campagna di protesta dal titolo «non siamo bambole». Una polemica che, all’indomani del Lingotto 2, in cui gli invitati a parlare erano esclusivamente uomini, poteva sembrare diretta agli stessi leader del centrosinistra, ma che risulta invece diretta al premier. Ma cosa cambierà davvero per le donne italiane una volta che questo presidente del Consiglio non calcherà più, per motivi legali, politici o semplicemente biologici, la scena politica? A quali leadership innovative ed illuminate potranno guardare le donne per cercare supporto, identificazione, attenzione, rispetto e, soprattutto, opportunità di crescita per loro stesse e per il Paese? A guardare bene viene anche da chiedersi se le donne stesse siano pronte. Pronte non solo e non tanto a dichiararsi «esseri pensanti» invece di bambole, come facevano le suffragette di un secolo fa, ma pronte ad assumersi vere responsabilità di leadership. E soprattutto pronte a smarcarsi dall’ala protettrice dei loro mentori, a uscire dall’ombra, a sentirsi responsabili e artefici del loro successo e non eternamente grate a chi ha dato loro una opportunità come se non fosse meritata. Come se la gratitudine la si dimostrasse con la sottomissione e non con l’assunzione della piena responsabilità del proprio ruolo ed il semplice svolgimento del proprio lavoro. Ma qua si entra in un terreno che travalica la mera questione femminile e che chiama in causa un cambiamento culturale che non riguarda solo le donne, ma un Paese intero.

La Stampa 25.01.11