attualità, politica italiana

"Ma l’Italia non fa eccezione", di Marc Lazar

Le elezioni del 24-25 febbraio sono state commentate in Italia soprattutto in funzione di criteri nazionali. Si è sottolineato, cercando di spiegarlo, il formidabile successo di Beppe Grillo, la vittoria strappata dal centro-sinistra, la rimonta di Silvio Berlusconi, il flop di Mario Monti. E si continua a disquisire sulla situazione inestricabile in cui il Paese si è venuto a trovare, con grave rischio di ingovernabilità. Se però questo voto interessa tutta l’Europa, non è solo per il profumo esotico che emana dai «due comici», secondo una formula in uso che ha suscitato molte polemiche; ma anche perché quanto avviene in Italia si riscontra, sotto forme diverse, in quasi tutti i Paesi europei. Di fatto, le elezioni nel Bel Paese sono state inficiate da tre crisi strettamente interconnesse: una crisi sociale, una crisi politica e una crisi europea. E la combinazione di questi tre ingredienti esplosivi non è certo una particolarità italiana.
Nell’Eurozona, fatta eccezione per la Germania, l’Austria e la Finlandia, le politiche di austerità e di rigore stanno provocando effetti recessivi più o meno accentuati. Ne consegue, oltre all’aumento della disoccupazione (che supera l’11%) e della povertà, l’aggravamento delle disuguaglianze sociali, territoriali e generazionali, nonché di genere e tra nativi e immigrati. In queste condizioni, è difficile spiegare agli europei che in prospettiva il risanamento dei conti pubblici dovrebbe favorire il ritorno alla crescita e il miglioramento delle condizioni di vita. La loro esasperazione cresce e si manifesta, oltre che nelle urne, anche sulle piazze, come è avvenuto in Portogallo. Ormai il dibattito non coinvolge più soltanto gli economisti, divisi tra difensori del rigore e adepti del rilancio, ma sta diventando apertamente politico. È ancora politicamente possibile sostenere l’imperativo di ridurre i debiti e i deficit pubblici senza rischiare di far esplodere tutto?
Su questo terreno si innesta un profondo malessere politico, più fortemente sentito in Italia, ma che non risparmia gli altri Paesi. Dovunque si evidenzia la sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei partiti, la disaffezione per la politica, il rifiuto, se non addirittura l’odio nei confronti dei suoi leader, ma anche di tutte le élite, economiche, finanziarie, mediatiche e culturali. Tutto ciò ha investito in pieno i principali partiti, di destra o centro-destra, di sinistra o centro-sinistra, che si sono alternati al potere, ben sapendo che i governi uscenti sono quasi sistematicamente penalizzati. Tanto più che le formazioni populiste protestatarie sono in piena espansione. Indubbiamente questi schieramenti presentano grosse differenze da un Paese all’altro (il Movimento Cinque Stelle non è il Fronte Nazionale di Marine Le Pen), ma hanno anche molte caratteristiche in comune: come quella di stigmatizzare le élite, criticandone le pratiche e i costumi, di esaltare il senso comune popolare, di propugnare soluzioni semplici per le questioni più complesse, di mescolare i temi più eterogenei, di rimettere in discussione l’Europa; e inoltre il ruolo centrale dei leader, la rivendicazione di una prassi di democrazia diretta ecc. L’avanzata di questi movimenti colpisce tutto il sistema dei partiti tradizionali. I quali cercano o di coinvolgerli in alleanze per meglio soffocarli, o di radicalizzarsi facendo propri alcuni dei loro argomenti. Come David Cameron, che sotto la pressione dell’Ukip (Partito dell’indipendenza del Regno Unito) ha proposto un referendum sull’Europa. C’è anche chi cerca di contenere la loro avanzata mediante cordoni sanitari, e finisce così per collaborare con i propri rivali di sempre, rischiando di prestare ancor più il fianco alle denunce di collusione dei populisti.
Infine, quest’Europa che rappresentava un’opportunità sta diventando ovunque un problema: perché è associata al rigore e all’austerità, perché nonostante alcuni innegabili sforzi appare poco democratica, perché non fornisce ancora un progetto mobilitante, nel momento in cui i cittadini dell’Unione percepiscono, più o meno nettamente, che oramai lo stato-nazione non è più un contesto adeguato, e sono quindi alla ricerca di nuovi quadri di riferimento. Ma c’è di peggio. L’Europa è sempre più divisa tra i Paesi che seguono il modello tedesco, eretto ad esempio e motivo di speranza, e quelli — soprattutto al Sud — che lo vedono come un vero e proprio incubo, alimentando oltre tutto sentimenti antitedeschi. L’idea europea sta arretrando, anche se agli occhi della maggioranza dei suoi abitanti l’Europa rimane un orizzonte di aspettative irrinunciabili. Ma per quanto tempo?
L’Italia non è dunque un’anomalia, ma una realtà rivelatrice del dramma dell’Europa e dei dilemmi degli europei. È il caso di disperarsi, richiamando sempre più i paralleli con gli anni 1930, quando la crisi economica fece vacillare tante democrazie europee? Sappiamo bene che un paragone non autorizza una conclusione. Dal 1945 in poi, la ragione democratica ha sempre avuto la meglio sulle passioni antidemocratiche. Ma è ormai sempre più urgente prendere sul serio il segnale d’allarme che viene dall’Italia, grande Paese dell’Eurozona, forte potenza economica, pilastro della costruzione europea. Aprendo un dibattito sulle politiche economiche e sociali a livello europeo per tornare alla crescita. Rinnovando profondamente le prassi democratiche in ciascuno dei Paesi membri. Rilanciando la costruzione europea, e dotandola dei mezzi per essere una vera potenza pubblica — cosa che i dirigenti dei vari Paesi membri rifiutano. Non agire in questo senso vuol dire rischiare di essere travolti dallo tsunami scatenato da Beppe Grillo, che in questi giorni scuote la Penisola, ma presto si estenderà a tutto il continente europeo.
Traduzione di Elisabetta Horvat

La Repubblica 08.03.13