attualità, economia, lavoro, pari opportunità | diritti

"Fiat e diritti in tempo di crisi. Sia la politica a dare risposte", di Silvano Andriani*

Il bell’articolo di Stefano Fassina (pubblicato venerdì scorso sull’Unità) sulla situazione Fiat mi induce a qualche considerazione. Innanzitutto vorrei notare che nel clamore del dibattito sulla Fiat passano inosservate notizie quali la recente vittoria di Fincantieri di una importante gara per la vendita di navi in Usa. Certamente ci sono altre imprese italiane che rispettano i contratti nazionali e riescono a difendere ed aumentare le quote di mercato in tempo di crisi puntando su una vera capacità di innovazione e sulla qualità dei loro prodotti. Il rischio è di passare invece per innovatrici imprese che perdono quote di mercato e che spacciano per aumento della produttività l’aumento dello sfruttamento del lavoro. C’è un’affermazione di fondo nell’articolo di Stefano: i lavoratori ed i loro sindacati si trovano in una situazione senza una effettiva possibilità di scelta. D’altro canto non bisogna dimenticare che cinque anni fa la Fiat era praticamente fallita e che l’intera economia italiana versa in una situazione di quasi stagnazione da ben prima che cominciasse la crisi mondiale. Fasi di prolungata stagnazione o addirittura di recessione o depressione non sono favorevoli ai lavoratori. Le lotte sono necessarie ed in determinati casi possono dare risultati, ma non è possibile immaginare un cambiamento generale dei rapporti di forza solo con le lotte sindacali. Eppure l’esperienza della crisi più simile all’attuale, quella degli anni ’30, mostra che proprio durante la grande depressione in due realtà importanti, gli Usa ed il blocco dei paesi scandinavi, fu realizzato un grande avanzamento della democrazia e del potere dei lavoratori. Tale avanzamento avvenne però per via politica con la vittoria di Roosvelt negli Usa e l’ascesa al potere dei partiti socialdemocratici per la prima volta e simultaneamente in tutti i paesi scandinavi. Negli anni ’30 vinsero le forze riformiste che seppero rompere con l’ortodossia economica e seppero immaginare un modello di sviluppo diverso. L’uso del deficit pubblico per sostenere la domanda fu solo una leva per favorire un complesso di innovazioni che cambiarono la natura del capitalismo e aprirono la strada, negli Usa, all’american way of live e nei paesi scandinavi e poi in Europa, allo Stato sociale. Il mondo del lavoro fu componente essenziale dei blocchi sociali che portarono al potere Roosvelt ed i socialdemocratici scandinavi, mail successo non sarebbe stato possibile senza l’alleanza con quella parte del mondo imprenditoriale che era disponibile all’idea di un diverso modello di sviluppo. Anche ora, in un contesto molto diverso, il problema centrale è il cambiamento del modello di sviluppo. Il guaio per il mondo del lavoro in Europa ed ancor più in Italia è di non avere finora a riferimento un ceto politico riformista all’altezza di questa sfida. Sfida che comporta la soluzione di alcune questioni molto complesse quali: come si fa a dare vita ad una distribuzione del reddito più giusta e che consenta un’adeguate crescita della domanda interna senza che ciò comporti, come è avvenuto negli ultimi trenta anni, l’aumento sistematico del debito privato e pubblico; con quale politica industriale si può stimolare un salto di qualità dell’apparato produttivo ed una riduzione dello squilibrio Nord-Sud; come si può passare a stili di vita ed a politiche che affermino uno sviluppo trainato non dalla crescita dei consumi privati,ma dal potenziamento dei beni pubblici in una situazione deteriorata del bilancio pubblico; come si organizza un mercato del lavoro che sia confacente alla realizzazione dei precedenti obbiettivi. Credo che di questo dovrebbe occuparsi un ceto politico riformista che voglia fare il proprio mestiere evitando di identificarsi con operai costretti a votare in condizioni di necessità,

*economista

L’Unità 10.01.10

******

Beck: “Così Fiat taglia i diritti e riduce produttività e democrazia”, intervista di Riccardo Staglianò

La reputazione dell´Ue migliorerebbe se si occupasse di sicurezza sociale e redistribuzione della ricchezza.
Nel dibattito manca una sinistra non nostalgica del vecchio welfare che sia controparte del capitale transnazionale. La globalizzazione è un boomerang. Ieri le nostre aziende lo lanciavano entusiaste verso le delocalizzazioni cinesi o est-europee, oggi torna indietro e si schianta sulla testa dei lavoratori italiani. Un prezzo l´avevano già pagato allora, perdendo il posto a favore di operai stranieri. Ora fanno il bis, con il ricatto ormai dentro casa: questa è la nuova offerta, prendere o lasciare. Peccato, osserva Ulrich Beck, uno dei massimi sociologi viventi, che questa alternativa brutale sia il viatico per la futura irrilevanza della nostra industria. Perché più si tagliano i diritti, più si riduce l´identificazione del dipendente con il datore di lavoro. E, in ultimo, si deprimono produttività e creatività, le uniche armi sensate che ci restano per competere con i Paesi emergenti. Teorizzando la «società del rischio» lo studioso tedesco è stato tra i primi a metterci in guardia contro l´illusione che i problemi distanti non ci toccassero. Gli chiediamo quindi, adesso che è toccata a Pomigliano e poi a Mirafiori, come il caso Fiat e i suoi apparentemente inesorabili aut aut ci aiutino a ragionare intorno alla crescente separazione tra capitale e democrazia.
Già alla fine degli anni ‘80 scriveva che i rischi globali sono i nostri rischi. Oggi la globalizzazione entra nelle nostre fabbriche e ne cambia le regole. Possiamo resistere? E come?
«Quello della Fiat è un ottimo esempio di come la globalizzazione può essere usata come nuovo gioco di potere per cambiare le regole del potere. Assistiamo infatti all´emancipazione dell´economia dai vincoli nazionali e democratici. Gli stati del XIX secolo avevano prodotto istituzioni per ridurre i danni che il capitalismo industriale poteva provocare. Il matrimonio di allora tra potere e politica sta però finendo in divorzio. Il potere è sempre meno democratico, meno legale, più informale, parzialmente trasferito a un capitale sempre più mobile e al mercato finanziario. E in parte agli individui, che dovrebbero tutelarsi da soli».
A giudicare da come stanno andando le cose, non sembra facilissimo difendersi da soli…
«Certo che non lo è. Mi viene in mente un caso simile accaduto in Germania. Nel 2001 la Volkswagen voleva che i suoi operai lavorassero più a lungo, per una paga minore e con meno diritti. O accettavano di entrare in una newco apposita, oppure avrebbero spostato quella parte di produzione in Slovacchia o in India. Tutti, dai sindacati al cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, la giudicarono un´idea meravigliosa. E si congratularono poi per aver evitato quell´emorragia verso l´estero. Vedo però una differenza importante. Dentro Vw c´è un consiglio internazionale di lavoratori da interpellare ogni volta che l´azienda prova a delocalizzare in Paesi dove il costo del lavoro è più basso. Un contropotere al management che, pur agendo all´interno della legge, è sempre meno legittimato rispetto alla comunità nazionale che lo esprime».
In Risikogesellschaft lei immaginava una società cosmopolita come «nesso globale di responsabilità in cui gli individui, e non solo i loro rappresentanti, potranno partecipare direttamente alle decisioni politiche». Qui però assistiamo all´opposto. I lavoratori non hanno alcuna voce in capitolo. Poca o punto anche i politici. È questo il futuro delle relazioni tra capitale e diritti?
«Devo ammettere che è un buon contro esempio al mio ottimismo di allora. Credo ancora che gli individui, ad esempio i consumatori con una coscienza politica, siano un gigante dormiente. Se si mettono insieme, se si organizzano, la loro decisione di comprare o non comprare qualcosa può valere quasi più di un voto. La stessa azione coordinata si può pensare per i lavoratori. Su scala internazionale c´è una competizione di sistemi economici e molti fanno notare come quello cinese sia più efficiente di quello occidentale. Ma lo è a scapito della democrazia. Bisogna inventare altri modelli».
L´occidente si vanta di esportare la democrazia, quando serve anche in punta di baionetta. Perché non esportiamo anche la democrazia nel mercato del lavoro che caratterizzava la nostra civiltà?
«La democraticità del capitale non si gioca più all´interno di una nazione. Questa domanda dovrebbe girarla all´Unione Europea. Uno dei motivi per cui la Ue ha così tanti problemi a essere accettata dalla popolazione è che si occupa solo del mercato, da una prospettiva neoliberale. Se iniziasse a pensare a come garantire una sicurezza sociale ai lavoratori degli stati membri, la sua reputazione ne gioverebbe».
Lei conosce l´obiezione dei manager: per rimanere competitivi bisogna rinunciare a qualche diritto. La convince?
«È un argomento immanente, buono solo in limitati contesti. Pensando invece ai lavori a più alta qualificazione, quelli su cui possiamo ancora essere competitivi, più si tagliano i diritti più si riduce l´identificazione del dipendente con l´azienda. E con essa la flessibilità e la creatività che servono per prosperare. Alla fine, ridefinendo Stato e sindacati in una dimensione transnazionale, anche le aziende si accorgerebbero che democrazia e produttività sono due lati della stessa medaglia».
Intanto però assistiamo alla svalutazione del lavoro, inteso solo come contropartita di un salario. Prima era anche altro, ovvero uno strumento di dignità e di libertà. Cos´è andato storto?
«Forse possiamo recuperare da Marx l´idea di internazionalizzazione della classe operaia. Ma se vogliamo reinventare la politica del lavoro all´alba del XXI secolo dobbiamo renderci conto che viviamo in un mondo policentrico e tentare nuove alleanze: tra lavoratori e consumatori, tra stati, riorganizzando la Ue. Ciò che manca in questo dibattito è una sinistra non nostalgica del vecchio welfare state nazionale ma aperta a diventare la controparte dell´attuale capitale transnazionale».
Per il momento da noi chi critica questo smottamento nei diritti viene etichettato come conservatore, come qualcuno che rema contro il progresso. È così?
«No, direi che è vero il contrario. Negli ultimi 10-20 anni le politiche neoliberali sono state presentate come il progresso ma adesso ci si rende conto che sono categorie zombie. Ci avevano promesso «più mercato, meno poveri», ed è accaduto l´opposto. Lo stesso con la crisi finanziaria. La visione neoliberale che anche l´Europa ha adottato ha fallito su tutta la linea. Dovremmo provare a superarla con una visione social-democratica. Magari con un´aggiunta ambientalista. E, ovviamente, transnazionale».
La globalizzazione si regge sulla delocalizzazione verso Paesi più economici. Così le aziende risparmiano e si arricchiscono. Ma perché parte di quei profitti non viene ridistribuita, secondo un principio di vasi comunicanti, anche tra i lavoratori dei Paesi in cui quelle aziende hanno sede?
«In primo luogo perché le compagnie sono sempre più globalizzate anche al loro interno. BP, oggi, non vuol dire più British Petroleum ma Beyond Petroleum. Ovvero una multinazionale che paga le tasse in Svizzera e opera in numerosissimi stati. È difficile dunque dire qual è la reale sede di quella compagnia. In secondo luogo perché la ridistribuzione della ricchezza è stata compito degli stati nazionali. Solo un´Unione europea più ambiziosa, con un bilancio e tasse comuni, potrebbe attaccare questo problema. Ma sinché a Bruxelles regnerà l´ideologia neoliberale, resterà l´ennesima possibilità non colta».

La Repubblica 10.01.11