attualità, lavoro, pari opportunità | diritti

"L'Italia non cresce perché la politica è per gli anziani", di Stefano Lepri

Se l’Italia non è un Paese per giovani, i giovani promettenti vanno all’estero; dopo il richiamo di Napolitano a Capodanno se ne è accorto The Economist. In Germania e altrove, nonostante la crisi già scarseggia il lavoro qualificato. Qui il contrario. E comincia a circolare l’idea che i due disturbi di cui soffre la nostra economia, ovvero leggi norme contratti e usanze che scoraggiano i giovani, e l’anemia mediterranea della produttività che non cresce – condivisa con Grecia, Portogallo e Spagna – siano due aspetti dello stesso male.

Un Paese dove i giovani sono pochi e gli anziani sono tanti ragiona, sempre più, con la testa degli anziani. La politica si fa soprattutto per loro. Lo mostra al meglio una vicenda che, all’apparenza, con i giovani non c’entra nulla. La parziale rimonta di Silvio Berlusconi nelle elezioni del 2006 ebbe tra i punti forti la promessa di abolire l’Ici sulla prima casa. Tanto pareva attraente quell’argomento, che nel 2007 il governo Prodi reagì preferendo uno sgravio dell’Ici a un assegno per i figli capace di mettere d’accordo cattolici e sinistre.

Nel 2008, Berlusconi ha mantenuto la promessa; invano il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi suggeriva di intervenire sulle imposte che frenano la produzione, scelta più vantaggiosa per l’economia specie in fase di crisi. I sondaggi dicevano che era più impopolare l’Ici. Per l’appunto – osservò l’economista Massimo Bordignon – le persone anziane guardano al patrimonio, casa e risparmi, piuttosto che alla produzione di reddito, dalla quale sono o saranno presto fuori.

Il presidente dell’Istat Enrico Giovannini paragona l’Italia a una vecchia signora che intacca il patrimonio per sostenere le spese giornaliere, riducendo l’eredità da trasmettere. Oltre a gestire il patrimonio, gli anziani percepiscono una pensione o stanno per arrivarci. Qui l’Italia vanta un successo: il riequilibrio del sistema previdenziale è più avanzato da noi che altrove. Però l’aggiustamento è stato spostato sulle generazioni future.

La gran parte di coloro che vanno a riposo adesso sono colpiti ancora poco dalla prima grande riforma, adottata dal governo Dini 15 anni fa. Nel 2005 Berlusconi ne ritardò alcuni effetti in cambio di inasprimenti dopo 3 anni. Nel 2007 Prodi cancellò l’inasprimento ormai vicino in cambio di misure più incisive in un futuro distante. Secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, le pensioni di chi si ritira oggi ammontano in media al 70% dello stipendio; chi lascerà fra vent’anni riceverà solo il 55%. Assai peggio andrà per chi dovesse trascorrere nel precariato gran parte della vita; tanto che il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua preferisce tenere riservati i calcoli. Sul lavoro a termine si pagano contributi molto bassi; un meccanismo di calcolo in sé equilibrato darà diritto a pensioni, ugualmente, esigue.

Quando la normativa sul lavoro flessibile fu introdotta nel 1997, sottrasse un gran numero di giovani alla disoccupazione o al lavoro nero. Però in seguito il precariato è diventato una trappola. Sono giovani precari la gran parte delle 900.000 persone rimaste senza impiego nella crisi; l’attuale governo è stato prodigo nel finanziare la cassa integrazione ai lavoratori stabili (perlopiù anziani), ha respinto l’invito di Draghi ad estendere l’indennità di disoccupazione ai precari.

All’inizio, chi era precario si dava da fare di più, nella speranza di essere assunto in pianta stabile. Ora la prospettiva di restarlo tutta la vita scoraggia a migliorarsi, perfino a studiare. Organizzazioni internazionali come il Fmi e l’Ocse appoggiano la proposta di un contratto di lavoro unico che incanali gradualmente da inizi precari verso un posto fisso. Da noi non piace né alla Confindustria né ai sindacati, né alla destra né alla sinistra. Eppure gli economisti sono sempre più convinti che a frenare la dinamica della produttività sia proprio la mancanza di stimoli, di aspettative di carriera, per i giovani. In Spagna, dove massimo è il divario di tutele fra lavoratori stabili e temporanei, un recente studio della Banca centrale mostra che la produttività va peggio proprio nei settori dove la quota di precariato è più alta.

La Stampa 10.01.11