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"Quando il governo offende gli operai", di Gad Lerner

Un presidente del Consiglio che trova naturale legittimare il proposito di Marchionne – cioè il dirottamento all’estero degli investimenti produttivi Fiat in caso di bocciatura dell’accordo di Mirafiori – si assume una responsabilità che oltrepassa il mero infortunio verbale. Conferma che l´economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, sguarnita della minima tutela politica, la contesa globale. Siamo di fronte alla resa vergognosa di un governo già rivelatosi incapace di pretendere da Marchionne, com´era suo dovere, le informazioni puntuali sul suo fantomatico piano industriale senza le quali mai Obama avrebbe concesso il via libera all´operazione Chrysler negli Usa. Le stesse garanzie in assenza delle quali la cancelliera tedesca Merkel pochi mesi fa stoppò l´intesa tra Fiat e Opel. Così si comportano delle istituzioni pubbliche rispettabili. Con l´aggravante che Berlusconi si genuflette di fronte all´azzardo della più grande industria del suo paese, incurante del danno arrecato agli interessi nazionali. Perché qui non è più in gioco soltanto, e non sarebbe poco, la tutela del posto di lavoro di migliaia di lavoratori, ma l´intera struttura produttiva di una economia il cui destino resta legato all´industria manifatturiera. Rispetto alla quale, il premier-tycoon si conferma geneticamente estraneo.
Di fronte all´enormità di questo misfatto antinazionale, sarebbe ingenuo sovraccaricare di significati politici o ideologici il voto che i 5.500 dipendenti di Mirafiori sono chiamati a esprimere a partire da stanotte. Un partito operaio non può certo esistere nell´Italia del 2011. Nessuno più fingerà di credere, come nel passato, alla natura di per sé rivoluzionaria di una classe sociale che liberandosi dallo sfruttamento adempierebbe a una finalità di giustizia universale. Stremati, anziani e impoveriti, i lavoratori torinesi vengono chiamati a sancire nient´altro che una deroga alle normative vigenti così evidentemente peggiorativa dello status quo che neppure la Confindustria può vidimarla; almeno fin tanto che l´associazione degli imprenditori continuerà a dichiarare valido il contratto nazionale da lei stipulato con i sindacati.
Timida, anacronistica e imbarazzata pareva dunque, ieri, la presenza ai cancelli di Mirafiori di un leader della sinistra come Vendola: perché riesce difficile perfino a lui chiedere ai dipendenti Fiat di votare no al referendum-ultimatum, di fronte a un amministratore delegato che si è detto pronto a “brindare”, oltreoceano, a Detroit, in caso di bocciatura del suo diktat.
Non a caso prima della sortita di Berlusconi, e in assenza di un´effettiva libertà di scelta, era ammutolito lo stesso Partito democratico, i cui massimi dirigenti ancora ieri si dichiaravano “né con Marchionne, né con la Fiom” (cosa vuol dire?). Rescisso il loro giovanile vincolo esistenziale con il mondo del lavoro, caduta l´illusione della classe rivoluzionaria motore del progresso, questi dirigenti non seppero promuovere neanche quando governavano il paese forme alternative di tutela del lavoro dipendente; come la cogestione aziendale alla tedesca o l´azionariato dei dipendenti all´americana. Col bel risultato che oggi neppure il sindacalismo classista residuale praticato dalla Fiom Cgil è in grado di strappare garanzie progettuali e contropartite efficaci ai sacrifici richiesti dalla Fiat, pena il dirottamento all´estero degli investimenti.
Non può più esistere un partito operaio, ma fatica a sopravvivere anche un partito degli industriali, nell´Italia a crescita zero. Lo rivela clamorosamente la bandiera bianca alzata da Berlusconi.
Così gli operai di Mirafiori si ritrovano completamente disarmati, sollecitati a cedere diritti in cambio di una promessa di lavoro incerto e a basso reddito. Sarà, la loro, domani, una drammatica somma di scelte individuali. Mentre l´establishment del paese si crogiola in miopi calcoli di convenienza: assecondare la prepotenza di Marchionne nella speranza magari di assestare un colpo definitivo alla resistenza di una Cgil isolata? Elevando addirittura il manager italo-canadese a tardivo battistrada di una inesistente rivoluzione liberale mai neppure intrapresa dal berlusconismo?
Se Marchionne avesse abbinato la denuncia delle nostre relazioni sindacali antiquate a un effettivo rilancio dell´impresa automobilistica in Italia, anziché lamentare ingratitudine per l´”osceno” trattamento ricevuto, come se la Fiat non usufruisse tuttora di milioni di ore di cassa integrazione, forse oggi le sue richieste risulterebbero più credibili. Ma dopo aver risanato i bilanci Fiat grazie al sostegno decisivo delle nostre banche, trascorsi ormai sei anni e mezzo dal suo insediamento al Lingotto, è giunto il tempo di valutarne l´operato non solo come audace finanziere, bensì come capitano d´industria.
Quali nuove quote di mercato ha conquistato? Quali nuove vetture, all´altezza di competere con quelle della concorrenza, annovera nel suo glorioso curriculum?
I suoi predecessori Valletta e Romiti sbaragliarono anch´essi la resistenza sindacale, nel 1955 e nel 1980, ma con la Seicento e la Uno poi incrementarono le vendite. Marchionne invece si è rivelato abilissimo nel sostituire gli aiuti di Stato americani agli incentivi nostrani, ha fatto schizzare in Borsa i titoli Fiat per la gioia degli azionisti e di sé medesimo, ma nel frattempo ha sguarnito la produzione intestandosi un crollo delle vendite senza precedenti. Oggi la Fiat detiene solo una quota del 6,7% del mercato europeo, un record negativo, mentre le case automobilistiche rivali stanno crescendo. Sarà forse colpa di Landini e della Fiom se in pochi anni siamo passati da novecentomila vetture prodotte in Italia a meno di seicentomila? Risultano forse ingovernabili le fabbriche in cui langue la produzione? Davvero qualcuno crede che la fabbricazione della Panda a Pomigliano e il solo montaggio di una Jeep Chrysler a Mirafiori porteranno al raddoppio (e più) delle vetture prodotte in Italia, come genericamente promesso in un piano che nessuno, tanto meno Berlusconi, ha verificato?
I sindacalisti firmatari degli accordi di Pomigliano e di Mirafiori fanno notare che sono molti, in Italia, gli operai già oggi costretti a lavorare in condizioni più gravose di quelle che hanno strappato a Marchionne. È vero, anche se la prevista esclusione del maggior sindacato metalmeccanico, la Fiom Cgil, dalla rappresentanza aziendale di questi due stabilimenti, costituisce un vulnus democratico pericoloso. E, soprattutto, il ripiegamento in un´azienda come la Fiat prelude a un peggioramento generalizzato. Per questo oggi risulta così tormentosa la scelta cui sono chiamati, uno ad uno, i dipendenti di Mirafiori. In coscienza, nessuno tra i fortunati (ma anche fra i disoccupati e i precari) che restano fuori dai cancelli può giocare con un sì o con un no al posto loro.

Conferma che l´economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, sguarnita della minima tutela politica, la contesa globale. Siamo di fronte alla resa vergognosa di un governo già rivelatosi incapace di pretendere da Marchionne, com´era suo dovere, le informazioni puntuali sul suo fantomatico piano industriale senza le quali mai Obama avrebbe concesso il via libera all´operazione Chrysler negli Usa. Le stesse garanzie in assenza delle quali la cancelliera tedesca Merkel pochi mesi fa stoppò l´intesa tra Fiat e Opel. Così si comportano delle istituzioni pubbliche rispettabili. Con l´aggravante che Berlusconi si genuflette di fronte all´azzardo della più grande industria del suo paese, incurante del danno arrecato agli interessi nazionali. Perché qui non è più in gioco soltanto, e non sarebbe poco, la tutela del posto di lavoro di migliaia di lavoratori, ma l´intera struttura produttiva di una economia il cui destino resta legato all´industria manifatturiera. Rispetto alla quale, il premier-tycoon si conferma geneticamente estraneo.
Di fronte all´enormità di questo misfatto antinazionale, sarebbe ingenuo sovraccaricare di significati politici o ideologici il voto che i 5.500 dipendenti di Mirafiori sono chiamati a esprimere a partire da stanotte. Un partito operaio non può certo esistere nell´Italia del 2011. Nessuno più fingerà di credere, come nel passato, alla natura di per sé rivoluzionaria di una classe sociale che liberandosi dallo sfruttamento adempierebbe a una finalità di giustizia universale. Stremati, anziani e impoveriti, i lavoratori torinesi vengono chiamati a sancire nient´altro che una deroga alle normative vigenti così evidentemente peggiorativa dello status quo che neppure la Confindustria può vidimarla; almeno fin tanto che l´associazione degli imprenditori continuerà a dichiarare valido il contratto nazionale da lei stipulato con i sindacati.
Timida, anacronistica e imbarazzata pareva dunque, ieri, la presenza ai cancelli di Mirafiori di un leader della sinistra come Vendola: perché riesce difficile perfino a lui chiedere ai dipendenti Fiat di votare no al referendum-ultimatum, di fronte a un amministratore delegato che si è detto pronto a “brindare”, oltreoceano, a Detroit, in caso di bocciatura del suo diktat.
Non a caso prima della sortita di Berlusconi, e in assenza di un´effettiva libertà di scelta, era ammutolito lo stesso Partito democratico, i cui massimi dirigenti ancora ieri si dichiaravano “né con Marchionne, né con la Fiom” (cosa vuol dire?). Rescisso il loro giovanile vincolo esistenziale con il mondo del lavoro, caduta l´illusione della classe rivoluzionaria motore del progresso, questi dirigenti non seppero promuovere neanche quando governavano il paese forme alternative di tutela del lavoro dipendente; come la cogestione aziendale alla tedesca o l´azionariato dei dipendenti all´americana. Col bel risultato che oggi neppure il sindacalismo classista residuale praticato dalla Fiom Cgil è in grado di strappare garanzie progettuali e contropartite efficaci ai sacrifici richiesti dalla Fiat, pena il dirottamento all´estero degli investimenti.
Non può più esistere un partito operaio, ma fatica a sopravvivere anche un partito degli industriali, nell´Italia a crescita zero. Lo rivela clamorosamente la bandiera bianca alzata da Berlusconi.
Così gli operai di Mirafiori si ritrovano completamente disarmati, sollecitati a cedere diritti in cambio di una promessa di lavoro incerto e a basso reddito. Sarà, la loro, domani, una drammatica somma di scelte individuali. Mentre l´establishment del paese si crogiola in miopi calcoli di convenienza: assecondare la prepotenza di Marchionne nella speranza magari di assestare un colpo definitivo alla resistenza di una Cgil isolata? Elevando addirittura il manager italo-canadese a tardivo battistrada di una inesistente rivoluzione liberale mai neppure intrapresa dal berlusconismo?
Se Marchionne avesse abbinato la denuncia delle nostre relazioni sindacali antiquate a un effettivo rilancio dell´impresa automobilistica in Italia, anziché lamentare ingratitudine per l´”osceno” trattamento ricevuto, come se la Fiat non usufruisse tuttora di milioni di ore di cassa integrazione, forse oggi le sue richieste risulterebbero più credibili. Ma dopo aver risanato i bilanci Fiat grazie al sostegno decisivo delle nostre banche, trascorsi ormai sei anni e mezzo dal suo insediamento al Lingotto, è giunto il tempo di valutarne l´operato non solo come audace finanziere, bensì come capitano d´industria.
Quali nuove quote di mercato ha conquistato? Quali nuove vetture, all´altezza di competere con quelle della concorrenza, annovera nel suo glorioso curriculum?
I suoi predecessori Valletta e Romiti sbaragliarono anch´essi la resistenza sindacale, nel 1955 e nel 1980, ma con la Seicento e la Uno poi incrementarono le vendite. Marchionne invece si è rivelato abilissimo nel sostituire gli aiuti di Stato americani agli incentivi nostrani, ha fatto schizzare in Borsa i titoli Fiat per la gioia degli azionisti e di sé medesimo, ma nel frattempo ha sguarnito la produzione intestandosi un crollo delle vendite senza precedenti. Oggi la Fiat detiene solo una quota del 6,7% del mercato europeo, un record negativo, mentre le case automobilistiche rivali stanno crescendo. Sarà forse colpa di Landini e della Fiom se in pochi anni siamo passati da novecentomila vetture prodotte in Italia a meno di seicentomila? Risultano forse ingovernabili le fabbriche in cui langue la produzione? Davvero qualcuno crede che la fabbricazione della Panda a Pomigliano e il solo montaggio di una Jeep Chrysler a Mirafiori porteranno al raddoppio (e più) delle vetture prodotte in Italia, come genericamente promesso in un piano che nessuno, tanto meno Berlusconi, ha verificato?
I sindacalisti firmatari degli accordi di Pomigliano e di Mirafiori fanno notare che sono molti, in Italia, gli operai già oggi costretti a lavorare in condizioni più gravose di quelle che hanno strappato a Marchionne. È vero, anche se la prevista esclusione del maggior sindacato metalmeccanico, la Fiom Cgil, dalla rappresentanza aziendale di questi due stabilimenti, costituisce un vulnus democratico pericoloso. E, soprattutto, il ripiegamento in un´azienda come la Fiat prelude a un peggioramento generalizzato. Per questo oggi risulta così tormentosa la scelta cui sono chiamati, uno ad uno, i dipendenti di Mirafiori. In coscienza, nessuno tra i fortunati (ma anche fra i disoccupati e i precari) che restano fuori dai cancelli può giocare con un sì o con un no al posto loro.

La Repubblica 13.01.11

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Mario Carraro, numero uno del gruppo che produce trattori “Il Cavaliere si impegni per trattenere qui il Lingotto”, di gi.ba.

«Il presidente del Consiglio faccia il presidente del Consiglio e non dia segnali negativi all´industria. Si preoccupi, anzi, di trattenere in Italia la più grande azienda manifatturiera del Paese». Mario Carraro, classe 1929, numero uno del gruppo che produce trattori e sistemi di trasmissione non ha dubbi: «Marchionne ha sparigliato le carte, si comporta in modo nuovo, ma Mirafiori non deve lasciare l´Italia».
Perché?
«Per approfittare delle nostre abilità. Delocalizziamo per i prodotti a basso valore aggiunto, ma concentriamo in Italia i lavori più complessi, quelli per i quali sono necessarie grandi competenze».
Quindi qual è il problema del Paese?
«Aver perso competitività nei confronti delle economie avanzate. Non possiamo pensare di fare a gara con l´Asia o con il Brasile, viaggiano a una velocità doppia della nostra, ma non possiamo perdere terreno verso i nostri vicini. Ecco Marchionne solleva una problematica fondamentale, la competitività».
Però pone anche condizioni molto dure.
«Forse, ma negli ultimi anni la concertazione è diventata sempre più difficile: è fondamentale semplificare tutti i processi. Le battaglie della Fiom sono troppo ideologiche: Landini sembra quasi un moderato rispetto al passato, ma sono tutti ancorati a situazioni che non esistono più. Le vecchie contrattazioni andavano bene anni fa, quando ancora pensavamo di poter crescere all´infinito. Quella stagione si è chiusa. Volkswagen va bene perché produce più all´estero che in Germania».
Ma lei lascerebbe l´Italia?
«No, ma dobbiamo cambiare passo. Pensare al futuro, fare progetti a lunga scadenza, altrimenti non usciremo mai dalla crisi. Pensiamo alle riforme e non mettiamo paura al Paese».

La Repubblica 13.01.11