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"A Mirafiori non basta il sì", di Cesare Damiano

Sull’accordo di Mirafiori i lavoratori si sono espressi. Il sì ha vinto a denti stretti prevalendo di poco tra gli operai (9 voti) e con un largo consenso tra gli impiegati ed i quadri. Per molti lavoratori – davanti al bivio della promessa di investimenti futuri o della minaccia di una chiusura immediata – più che di una scelta convinta si è trattato di una scelta obbligata, come ha riconosciuto lo stesso Marchionne.
Credo sia un bene che, nonostante tutto, il sì abbia prevalso.
Adesso, per le prospettive strategiche degli stabilimenti torinesi della Fiat e per il futuro dell’industria automobilistica italiana, si apre una pagina nuova che richiede alle parti in campo responsabilità e misura.
Anche nel giudicare atteggiamenti e comportamenti dei protagonisti dello scontro.
Ritengo sbagliato, come qualcuno anche nel Pd in questi giorni ha fatto, gridare acriticamente viva Marchionne: l’amministratore delegato della Fiat, con le sue scelte, non può certo essere preso a modello. (Non dimentichiamo, al riguardo, i viva Calearo che molti nel partito hanno intonato nel recente passato: pur trattandosi di situazioni e persone totalmente diverse, sappiamo dove si va a finire con le adesioni entusiastiche della prima ora). Come ritengo sbagliato l’atteggiamento della Fiom davanti all’esito delle urne. Anche se i lavoratori si sono trovati a doversi esprimere sotto scacco, non si può parlare di referendum illegittimo.
Le tute blu della Cgil non possono ignorare che al voto ha partecipato oltre il 94 per cento degli aventi diritto. Dovrebbero piuttosto capitalizzare il fortissimo consenso ottenuto dal no per rientrare nel gioco. Perché è adesso, a riflettori spenti, che comincia la vera partita.
Anzitutto l’esito del voto va rispettato. Il Lingotto non può sottrarsi dal realizzare il piano d’investimenti prospettato. E deve finalmente dare un volto al progetto di “Fabbrica Italia” di cui Mirafiori è un tassello fondamentale.
Mentre le parti sociali e la politica hanno il compito di superare le contraddizioni e di sciogliere i nodi che l’accordo porta con sé, a cominciare dal tema della rappresentanza del sindacato nei luoghi di lavoro.
Ma ci sono anche altre questioni, altrettanto decisive, da affrontare.
A cominciare dall’assenza del governo. Nel corso dell’intera vertenza, palazzo Chigi non ha minimamente chiarito i suoi impegni di politica industriale a sostegno di un settore strategico come quello dell’auto. Il premier e i suoi ministri si sono limitati a generiche affermazioni filo-aziendali (e anti Cgil). È uno svantaggio che la nostra industria sta pagando e pagherà caro. Altrove i governi si muovono in direzione opposta, e non mi riferisco soltanto al sostegno dato alla Fiat dai governi di Serbia e Messico per gli impianti di Kragujevac e di Toluca.
Negli Stati Uniti, per Chrysler, Ford e General Motors, Obama ha speso sessanta miliardi di dollari.
In Francia, Sarkozy ha messo sette miliardi di euro a sostegno di Psa e Renault. In Germania, la Merkel ne ha investiti tre per la Opel. Da noi, zero.
Tutto questo mentre la Fiat, di suo, non naviga in buone acque.
Sono i dati sul mercato dell’auto a dirlo. Nel 2010 il calo delle immatricolazioni della casa torinese è stato del 16,7 per cento, quasi il doppio della media del mercato che ha fatto registrare un meno 9,2 per cento.
Non è solo questione di produttività.
Se oggi gli impianti di Mirafiori o di Cassino producessero come quelli polacchi o brasiliani, a prescindere dalle attuali dosi massicce di cassa integrazione , le vetture costruite in più resterebbero ad arrugginire, invendute, sui piazzali. È una questione di prodotto, di modelli. Non si vive di sole Panda o 500. Senza un salto di qualità, il rischio è che sia Chrysler a fagocitare Fiat. Non il contrario.
A referendum archiviato è ora che si volti, tutti, pagina.
Il governo non può più fare finta di niente. Deve convocare le parti per esigere il rispetto del piano; deve appoggiare la necessità di una nuova intesa tra le parti sociali sulla rappresentanza e la rappresentatività sindacale favorendo il varo di una legge di sostegno (il contrario di quello che pensa Sacconi). E, soprattutto, deve cominciare a ragionare di politica industriale, prima che sia troppo tardi.

da Europa Quotidiano 20.01.11