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C’era una volta la Rai di Tortora, di Giovanni Valentini

La TV italiana è ormai un baraccone insostenibile. (da “Enzo Tortora: dalla luce del successo al buio del labirinto” di Daniele Biacchessi – Aliberti, 2013)
Non ho visto la puntata di “Porta a porta” dedicata al caso Corona. Da esperto e consumato professionista di talk-show, Bruno Vespa l’avrà costruita e condotta senz’altro con perizia. Ma non vedrò neppure la registrazione per un semplice motivo: non credo che un personaggio del genere meriti una trasmissione di “approfondimento” su una rete della Rai, anzi sulla cosiddetta “rete ammiraglia”. Al di là delle sue responsabilità penali che toccherà alla magistratura accertare, ritengo che Fabrizio Corona incarni un modello negativo, una figura – per usare un termine di moda in questa campagna elettorale – impresentabile. Un prototipo di bellimbusto.
Ne parlo qui, dunque, per due ragioni. La prima, per indicare che cosa – a mio parere – non è da servizio pubblico e lo differenzia appunto dalla tv commerciale. La seconda ragione è che l’editore Aliberti ha appena pubblicato in questi giorni un libro del collega Daniele Biacchessi, intitolato “Enzo Tortora: dalla luce del successo al buio del labirinto”. Ed è una storia televisiva e giudiziaria che idealmente si contrappone in positivo proprio al caso Corona, perché rappresenta retrospettivamente un modello alternativo di servizio pubblico.
Enzo Tortora, sia detto per i più giovani, non è stato solo un presentatore radiotelevisivo. “Era prima di tutto – come ricorda la figlia Silvia in controcopertina – un giornalista, un inviato e uno scrittore”. E fu anche “un grande inventore di format straordinari e vincenti della radio e della televisione”: da “L’oggetto misterioso” a “Portobello” fino alla prima edizione della “Domenica sportiva”.
Ma era innanzitutto un uomo dabbene, affabile, garbato. Un innocente coinvolto in un’inchiesta sulla camorra e una vittima della giustizia ingiusta. Dal giugno ’83 al giugno ’87, passarono quattro anni prima che fosse assolto con formula piena. Ne soffrì sul piano umano e psicologico, fino ad ammalarsi gravemente e a rimetterci la vita.
Nella storia della Rai, Tortora non è certamente l’unico esempio di un modo di fare televisione senza cedimenti verso quel genere che oggi si usa chiamare
infotainment,
cioè informazione spettacolo, un ibrido che spesso non riesce a fare né informazione né spettacolo. Certo, da allora a oggi i tempi sono molto cambiati. A partire dalla metà degli anni Ottanta, l’avvento della tv privata in Italia ha introdotto una modernizzazione non sempre o non tutta negativa. Ma spesso e volentieri la tv pubblica ha finito per omologarsi al ribasso, nella rincorsa dell’audience e della pubblicità, senza riuscire più a distinguersi da quella commerciale.
La “lezione” di Tortora e di tanti altri come lui, da Sergio Zavoli a Enzo Biagi, da Andrea Barbato a Giovanni Minoli, da Piero Angela a Corrado Augias, da Andrea Vianello a Milena Gabbanelli, resta dunque tuttora valida. E questo dovrebbe essere, appunto, il tratto distintivo della Rai, il codice genetico del servizio pubblico radiotelevisivo, la “reason why” per cui esiste e per cui noi cittadini telespettatori continuiamo nonostante tutto a pagare ogni anno il canone d’abbonamento.
Ora che anche La7 sembra destinata purtroppo a rientrare nell’orbita di Silvio Berlusconi, attraverso la ventilata cessione al suo ex assistente Urbano Cairo, editore e pubblicitario di scuola Publitalia, sarebbe tanto più utile e opportuno che la Rai riuscisse a compiere finalmente un salto di qualità, sul piano della produzione e della programmazione. Magari Enrico Mentana e Michele Santoro conserveranno i loro posti e i loro spazi. Ma non bastano due “testimonial” mediatici, già transitati peraltro in passato sui canali Mediaset, per preservare l’immagine di una rete indipendente.
La tv italiana – avvertiva Tortora nel lontano 1969, come si legge nella citazione iniziale – è diventata un “baraccone insostenibile”. Da Corona a Belen fino a Balotelli, negli ultimi giorni gli esempi non sono mancati. Tocca perciò innanzitutto al servizio pubblico invertire la tendenza, per introdurre possibilmente una svolta nel linguaggio, negli stili, nei temi, nella cultura popolare.
Non è sufficiente risanare i conti dell’azienda, ammesso pure che ci si riesca. Occorre ripristinare la funzione stessa della Rai, cioè il suo ruolo, la sua missione e la sua responsabilità istituzionale. E liberarla perciò dal controllo dei partiti e del governo: politico o tecnico che sia.

Da La Repubblica

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