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"Dipartimenti in chiusura", di Daniela Marcheschi

C’è un nuovo spettro che si aggira per l’Europa, carico di nubi per lo studio della letteratura italiana e per la stessa consapevolezza culturale delle future generazioni. È la chiusura di varie cattedre d’Italianistica nelle università straniere o la loro riduzione e il pericolo di accorpamenti meno funzionali alla ricerca e all’insegnamento. Rinnegando il valore espressivo e anche conoscitivo della letteratura, nei fatti sono messi a rischio la coscienza stessa della molteplicità delle tradizioni, che hanno contribuito a formare l’Europa, e l’attivo ruolo storico che l’Italia vi ha svolto: nel definirne la cultura e nel pensare fin dall’Ottocento la creazione di quell’Europa democratica, di cui tanto oggi si parla. Una parte cospicua di ragioni dell’attuale crisi è nella riduttiva visione dell’Europa come potenza economica a cui si è però restii a dare un governo centrale e condiviso. Ciò minaccia di rompere una comunità europea che appare sempre più strumentale, in cui la logica ragionieristica e aziendale dei vari governi prenderà inevitabilmente il posto di un effettivo sviluppo culturale ed economico unitari, pensati in maniera profonda e lungimirante.
Tre nudi fatti, però, e solo dei più eclatanti, perché in Paesi tradizionalmente amici dell’Italia: 1) In Francia, Poitiers sta chiudendo, su Nantes corrono voci poco incoraggianti, e anche a Tours è a rischio l’Italianistica, l’unica tra Bordeaux e Parigi. La Touraine e la valle della Loira hanno una forte impronta italiana in campo pittorico e architettonico; e a Tours sono alcune équipes de recherche di nome: una nel campo delle letterature moderne e contemporanee (c’è un diploma binazionale di Master-Laurea Magistrale in Studi Italiani con Perugia); l’altra nel settore degli studi sul Rinascimento (Centre d’Etudes Supérieures de la Renaissance). La politica neo-aziendale voluta dal governo Sarkozy fa prevalere redditività, risparmio cieco, autoritarismo; ma anche il tornaconto, dato che la presidenza delle università può servire per diventare sindaco. 2) In Grecia, dove l’insegnamento della lingua italiana è sempre più ridotto nelle scuole pubbliche, per Atene e Salonicco si ventila d’accorpare quattro/cinque dipartimenti in un unico Dipartimento di Lingue Straniere e Filologia. Qui si potranno studiare Inglese, Francese, Tedesco, Spagnolo e Italiano: ridotte a poco o nulla la letteratura e tutte quelle materie culturali da sempre capaci d’alimentare interdisciplinarità e dialogo interculturale. 3) In Svezia, a Göteborg, dove andò a morire Karin Boye innamorata della cultura classica, è sospesa o chiusa una cattedra di Italianistica a lungo punto di riferimento per tutti gli amanti della nostra lingua e letteratura: svedesi e italiani, figli degli operai emigrati in quel paese nel secondo dopoguerra. Oltre a quelli detti all’inizio, ci sono però anche altri motivi per la situazione precaria in cui sono diverse cattedre di Letteratura e cultura italiana all’estero. Nonostante tutto, è certa Italia colta (non solo politica, fra assenteismo e altro) ad abbandonare in primis l’Europa e l’alta cultura. Ad esempio per il Programma Cultura dell’Eacea (Traduzione letteraria), lo scorso anno solo tre progetti italiani sono giunti alla selezione finale, per non reggere poi il confronto con cinquecento finalisti di tutti i Paesi europei. Si offrivano cospicui finanziamenti anche alle traduzioni dal latino: nessun progetto dall’Italia, e sì che la riscossa moderna della lingua di Roma è partita proprio da Petrarca e dai nostri umanisti. Il ripiegamento provinciale di ceti intellettuali e dirigenti, più interessati ai piccoli poteri che a costruire la tradizione come ciò che riguarda il futuro e dà un orizzonte nuovo pure al passato, si unisce alla crisi di sistema del l’Italianistica. Questa vanta eccellenze indubbie, ma vizi clientelari e pregiudizi impediscono troppe volte di stimolare l’innovazione teoretica e sostenere esperienze aperte alla complessità interdisciplinare. Fanno il resto debolezze simili, accordi di scambio culturale gestiti a volte con sufficienza (lamentano i docenti di alcune università brasiliane, ad esempio), scarsi investimenti e interventi legislativi ad hoc per diffondere la cultura italiana e il suo patrimonio nel mondo. Eppure quello che “gli altri” chiedono con insistenza all’Italia è di esserne custodi e interpreti all’altezza. Basti del resto la casualità del concorso (e di qualche santo in Paradiso?) con cui si diventa direttore degli istituti italiani di cultura all’estero. Dovrebbe esservi invece una preselezione per accertare l’idoneità a poter accedere a corsi strutturati di formazione dei direttori. Quanto in passato è talora accaduto a Stoccolma, per la consegna del Premio Nobel, è esemplare in negativo: ha leso l’immagine dell’Italia e alcuni nostri autori più che rafforzarne la candidatura. Infine nelle nostre università, talvolta per difetto di leggi, talaltra per carenza di fondi o indifferenza, non si possono né svolgere sempre buoni programmi né si tengono corsi d’aggiornamento adeguati per gli italianisti stranieri. Anche in questo caso tutto sembra affidato più alla iniziativa di singoli docenti che a un avvertito sguardo d’insieme sull’Italianistica e sui suoi valori. Quanti saprebbero persuadere, dire perché essa valga la pena di essere insegnata e studiata con passione?

il Sole 24 Ore 31.03.13