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"Le condizioni per un accordo", di Rinaldo Gianola

Se gli industriali chiamano i sindacati a dare una mano per spegnere l’incendio che brucia la nostra economia prima che il tetto ci crolli addosso, nessuno può evitare di rimboccarsi le maniche. Questo sforzo comune lo si può chiamare Patto dei produttori (però cari imprenditori, questa è una formula storica che profuma di Cgil e di sinistra, inventatevi qualcosa di diverso…), Patto sociale, alleanza per lo sviluppo, magari politica dei redditi e altro ancora. Il sindacato confederale non farà certamente mancare il suo contributo decisivo se bisogna salvare, un’altra volta, il Paese. È bene, però, che le imprese e la politica valutino pienamente il ruolo del mondo del lavoro, per quello che ha fatto e per il contributo che potrà dare, anche per evitare errori e incomprensioni. I sindacati fecero la loro parte nel 1992 e nel 1993. Un grande segretario della Cgil firmò un accordo durissimo e poi si dimise. I lavoratori pagarono duramente nel passaggio al nuovo millennio perché l’Italia doveva salire sul carro dell’euro, la storia si è ripetuta dal 2008 ad oggi, e in particolare dal 2011 con il governo Monti il mondo del lavoro è stato colpito e offeso da provvedimenti che ne hanno eroso diritti e redditi, peggiorato le condizioni e le aspettative di vita. L’intervento draconiano sulle pensioni, che ha determinato il dramma degli esodati non previsto dal ministro Fornero, e la riforma del mercato del lavoro sono provvedimenti che hanno colpito in profondità il tessuto sociale già lacerato dalla recessione, dagli strappi nell’occupazione. Adesso però gli industriali, in attesa che compaia un governo, chiedono ai sindacati di fare fronte comune, di farsi carico tutti insieme per chiamare la politica alle sue responsabilità, di «salvare le fabbriche per salvare l’Italia». È una proposta impegnativa, coraggiosa. Però non si possono fare nuovi patti, accordi, alleanze come se non fosse successo nulla, come se imprese e lavoratori avessero sempre remato nella stessa direzione, come se Confindustria fosse stata in questi anni un consesso di anime belle e non avesse invece praticato anche la politica degli strappi a ripetizione ai danni della Cgil quando il clima politico illudeva le imprese di poter incassare senza mai pagare dazio. Se l’emergenza economica, se il disastro che stiamo vivendo impongono anche agli industriali un cambio di linea e di comportamento, allora è possibile che vengano sanate recenti ferite e divisioni e che le parti sociali possano iniziare un percorso comune.

Giorgio Squinzi propone un patto, è giusto che le parti giochino le loro carte. Probabilmente, alla luce della la sua storia e della sua filosofia imprenditoriale, è il leader industriale giusto per concretizzare un’operazione del genere. Può dimostrare coi fatti che la sua Confindustria non è solo l’associazione del “lamento” o della “lagna” come lo accusano da destra, gli ammiratori di Marchionne e della Thatcher.

Ma bisogna partire da condizioni chiare e impegnarsi a conquistare pochi, importanti obiettivi. Affinch l’alleanza tra imprese e sindacati non appaia una melassa consociativa che tutto avvolge e tutto smussa, o un bello slogan senza contenuti da spendere nei titoli dei Tg della sera, è opportuno che si riparta dal pieno riconoscimento reciproco, dalla rappresentanza trasparente degli interessi, dal rispetto delle diversità, insomma dalla ridefinizione delle regole democratiche di relazione tra le parti che, dopo vent’anni di Berlusconi e di modernizzatori di dubbio valore, oggi appaiono un po’ impolverate. Se c’è questo impegno, nessuno si tirerà indietro per salvare un’altra volta il Paese.

L’Unità 14.04.13