attualità, politica italiana

"I ricatti da respingere", di Massimo Giannini

C’è stato, in Italia, un tempo lontano in cui la sinistra berlingueriana sperava di governare in nome dell’«alternativa democratica ». Oggi quello che resta della sinistra italiana si accinge a governare insieme alla destra berlusconiana «perché non c’è alternativa». È un radicale cambio di fase, imposto dallo «stato d’eccezione» permanente nel quale siamo ormai precipitati. Prima un presidente della Repubblica che viene rieletto da un Parlamento disperato e paralizzato, per la prima volta dal dopoguerra. Ora un presidente del Consiglio del Pd che prova a fare un governo con il Pdl, per la prima volta dal dopo-Tangentopoli.
L’alchimia politica dell’esperimento è necessitata, ma azzardata. Le formule si sprecano: dal governo del presidente al governo di scopo, dal governissimo alla Grande Coalizione. Quella escogitata dal premier incaricato è oggettivamente efficace: «Governo di servizio» al Paese. Ma la sostanza è la stessa. Dopo un quasi Ventennio di scontro più o meno irriducibile con il Cavaliere di Arcore, la sinistra è costretta dalla sua stessa inadeguatezza non solo a scendere a patti, ma addirittura a governare insieme all’avversario. Una scelta contro natura, con la quale si vorrebbe riscrivere, manomettendola, la biografia della nazione. Si vorrebbe archiviare, snaturandola, la stagione del bipolarismo muscolare, che non si è consumata soltanto nel conflitto sterile tra berlusconismo e anti-berlusconismo, ma anche in due idee contrapposte e realmente inconciliabili dell’Italia, dei valori repubblicani, dello Stato di diritto, del civismo. Si vorrebbe insomma «costituzionalizzare » una volta per tutte l’anomalia berlusconiana. Non solo annacquando le differenze identitarie (che tra sinistra e destra, lungo il «cleavage» culturale tracciato a suo tempo da Norberto Bobbio, esistono ancora a dispetto di un «pensiero debole» che oggi si pretende egemone). Ma amnistiando anche le pendenze giudiziarie (che continuano a inseguire il leader del Pdl, minacciandone a breve la fedina penale e la biografia politica, e di fronte alle quali il «citizen Berlusconi» si pretende ancora una volta «meno uguale» degli altri di fronte alla legge).
Ma purtroppo, a questo punto, una scelta non contro la logica, se davvero si vuole provare l’ultimo tentativo per tamponare questa paradossale Weimar all’amatriciana. Dal giorno in cui un Pd decapitato da una suicida guerra per bande e libanizzato da un’inopinata «intifada digitale», senza più leader all’interno e senza più follower all’esterno, si è arreso all’evidenza e si è consegnato anima e corpo alle cure di Giorgio Napolitano, lo sbocco delle «larghe intese» ha smesso di essere un cammino impercorribile ed è diventato un destino inevitabile. «Non c’è alternativa», ripete allora il Capo dello Stato, anche a costo di violare «un patto preso con i rispettivi elettori». «Non c’è alternativa», ribadisce il premier incaricato, visto che «dalle elezioni non è uscita una maggioranza» e al Paese «serve comunque un governo».
Il «governo di servizio», se mai vedrà la luce, è dunque un atto di realismo politico. Quasi un «male necessario», secondo
l’analisi dei «rapporti di forza» predicata da Gramsci e dimenticata dai suoi epigoni. Dopo aver insistito per due mesi con la contraddittoria strategia del «doppio binario» (azzardando una trattativa parallela sul governo con i 5 Stelle e sulle riforme con il Pdl) e dopo esser ricaduto nella solita sindrome di Crono che divora i suoi figli (sacrificando Marini e Prodi sull’altare del Quirinale), il Pd prende infine atto del principio di realtà. Non ha autonomia numerica né politica per fare altro, se non accedere allo schema di Napolitano: una «larga convergenza tra le forze che possono assicurare la maggioranza in entrambe le Camere». E allo stato dei fatti, non si può neanche permettere il lusso di qualche «distinguo», formale e bizantino, sul livello di coinvolgimento nel nuovo esecutivo. Formare un governo «dei migliori», prestando le personalità più in vista del partito, in fondo non è molto diverso che assemblare un
governo «dei tecnici», tenendo i gruppi dirigenti fuori dalla squadra mista da costruire insieme all’altro polo. Alla fine, in Parlamento, è sempre il Pd che deve approvare i disegni e i decreti legge, votandoli insieme al Pdl. E la stessa esperienza del governo Monti sta lì a dimostrare che
la «foglia di fico», oltre a non funzionare concretamente, neanche conviene politicamente: metti la faccia su provvedimenti che non hai nemmeno deciso e che magari neanche condividi, ma che gli elettori ti imputano comunque.
A questo punto, ingoiare fino in fondo la medicina più amara è una mossa che ha almeno il pregio della coerenza. Enrico Letta è una scelta di peso, che rispetto a Giuliano Amato premia in parte l’innovazione rispetto alla tradizione. Si tratta di un quadro di governo giovane per gli standard italiani, ma che ha già dimostrato più volte le sue qualità e la sua affidabilità. Non lesinerà gli sforzi, tanto sulla formazione quanto sull’azione del suo esecutivo. Ma il suo tentativo resta difficile, temerario, per molti versi quasi proibitivo. Il «farmaco» delle larghe intese, oltre che amarissimo, può risultare mortale. Pensiamo solo alla lista dei ministri che il premier incaricato deve stilare, alla quale corrispondono almeno tre temi cruciali e non negoziabili. Chi sarà il ministro dell’Economia e del Welfare? È pensabile condividere con la destra la cancellazione immediata dell’Imu e delle tutele rimaste alla flessibilità del lavoro?
Chi sarà il ministro della Giustizia? È pensabile un patto scellerato sul salvacondotto da accordare al Cavaliere o una rinuncia a una legge finalmente degna contro la corruzione, dopo il pannicello caldo della Severino? Chi sarà il ministro dell’Interno? È pensabile un segnale anche solo velato di abbassamento della guardia sul fronte della lotta alle mafie e alle criminalità organizzate?
Se questa è la posta in palio, l’unico modo per evitare un drammatico compromesso al ribasso, o il fallimento del tentativo e quindi l’immediato ritorno alle urne, è respingere ogni ricatto sui nomi da scegliere e sulle cose da fare. E circoscrivere in modo esplicito il campo (e quindi in modo implicito anche il tempo) del gioco di questo «governo di servizio ». Cinque misure qualificanti, e non una di più: riforma della legge elettorale, riforma del bicameralismo, riforma del finanziamento della politica, un provvedimento per la riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese e un provvedimento di sostegno e rilancio dell’occupazione. A quel punto, missione compiuta. Ognuno recupera la sua libertà e la sua identità. Si sciolgono le Camere, si torna a votare. Con regole nuove e con un’Italia un po’ meno martoriata dai morsi della crisi. Non c’è altra via, se non si vuole spacciare per «una nuova stagione di civiltà e di cultura democratica» (come già si affannano a scrivere i corifei del Cavaliere) un indistinto consociativo che serve solo a chiudere l’eterna transizione italiana con la definitiva riabilitazione dell’avventura berlusconiana.
Letta, nell’accettare con riserva l’incarico, ha avvertito che questo governo «non nascerà a tutti i costi». È un preambolo importante, forse decisivo. Le «larghe intese», almeno in Italia, sono il “costo” che la politica paga alla sua inconcludenza e alla sua inefficienza, al suo cinismo e al suo opportunismo. Questo costo è già alto, ma non può diventare troppo alto. Non solo per il destino della sinistra, ma per il futuro stesso di questo disgraziato Paese.

La Repubblica 25.04.13