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“Il Paese senza futuro”, di Pietro Greco

Sono tempi oscuri e minacciosi per i ricercatori in Italia. A sostenerlo non sono i “camici rossi” disseminati nei laboratori del nostro Paese e sempre pronti – a detta di certa stampa – ad attaccare il governo Berlusconi. Ma è la più autorevole rivista scientifica al mondo, Nature, in un editoriale nel fascicolo appena pubblicato. I motivi alla base della critica, per nulla velata, avanzata da Nature alla politica della ricerca del governo Berlusconi sono sia congiunturali che strategici.

Quelli congiunturali sono almeno tre. Il primo riguarda il blocco della procedura di stabilizzazione dei precari negli Enti pubblici di ricerca voluto dal ministro Renato Brunetta. Il blocco impedirà ad almeno 2.637 “stabilizzandi” – ovvero con titoli già maturati – non solo di avere contratto a tempo indeterminato, ma di poter continuare a lavorare nel mondo della ricerca pubblica. Chi non sarà stabilizzato sarà, di fatto, cacciato via, come ha denunciato ieri in una intervista all’Unità l’ex ministro dell’Università Fabio Mussi. Così, in un colpo solo, il Paese rinuncerà a quasi il 4% delle sue risorse umane nella ricerca, mentre il tutto il mondo l’universo dei ricercatori tende a crescere. In realtà il danno sarà ancora più grande. Perché il blocco voluto da Brunetta toglie la speranza di un lavoro stabile da decine di migliaia di altri precari, creando le premesse per una fuga di massa dei giovani dalla ricerca scientifica in Italia.

Il secondo motivo congiunturale (ma non troppo) riguarda il taglio dei fondi alle università e il blocco quasi totale del turn-over: in pratica nei prossimi 5 anni gli atenei italiani dovranno rinunciare a 4 miliardi di euro. Il che significa che ci saranno meno risorse a disposizione, materiali e umane, sia per la didattica che per la ricerca. Un rischio tanto più grave se si tiene conto che il governo ha deciso che i fondi per l’università e la ricerca potranno essere utilizzati per coprire le eventuali perdite del sistema finanziario.

Il terzo motivo congiunturale, sottolineato in maniera particolare da Nature, è il totale e singolare silenzio del ministro competente, la signora Mariastella Gelmini, che si limita ad assistere senza interferire alle decisioni politiche assunte in altra sede (dal minsitro del’Economia Tremonti e dal ministro della Funzione pubblica Brunetta). Di fatto nessuno, nel governo Berlusconi, difende le ragioni della ricerca.

La rivista Nature propone, poi, due motivi strutturali alla base della sua critica. La prima è l’indicazione, contenuta nella legge 133/08, che le università potranno trasformarsi in fondazioni private. A volerla prendere sul serio, questa norma rappresenta una svolta epocale: la conoscenza acquisibile mediante l’educazione terziaria cessa di essere in linea di principio un bene pubblico e diventa un bene di mercato, accessibile solo ai più ricchi. A volerla prendere come l’hanno presa i rettori, la norma sembra preludere a ulteriori tagli della risorse pubbliche a favore delle università.

Ma la principale ragione di critica fatta propria da Nature alla politica della ricerca italiana è il suo andare in direzione opposta rispetto alla strada indicata dall’Unione europea nel 2000 a Lisbona (l’Europa leader dell’economia della conoscenza) e ribadita nel marzo 2002 a Barcellona (investimenti in ricerca pari ad almeno il 3% del Pil entro il 2010). Quasi tutti i paesi europei sono lontani dalla soglia di Barcellona: la media europea è ora attestata all’1,8%. Ma nessuno – tranne l’Italia – sta diminuendo i suoi investimenti, pur essendo in coda al convoglio (l’Italia investe l’1,0% del Pil in ricerca).

L’economia della conoscenza è unanimemente considerata l’economia più solida per costruire il futuro (sostenibile) delle nostre società. Per realizzarla la ricerca scientifica (di base e applicata) e lo sviluppo tecnologico sono assolutamente necessari, ma non bastano. Occorre un intero “pacchetto conoscenza”, ovvero investimenti importanti nell’educazione (primaria, secondaria e terziaria), oltre che in ricerca. Ebbene, anche nel settore educazione l’Italia è più indietro degli altri Paesi. Secondo l’Ocse l’Italia investe nel “pacchetto conoscenza” il 5,4% del Pil, contro il 7,5% circa di Francia, Germania, Gran Bretagna e Giappone, o addirittura il 10% circa di Stati Uniti, Corea e Svezia.

Gli altri investono molto e tendono ad aumentare i loro investimenti in conoscenza. Noi investiamo poco e tendiamo a diminuire gli investimenti in conoscenza. Gli altri costruiscono nuovi e larghi ponti verso il futuro. Noi stiamo incomprensibilmente tagliando i piloni a quei pochi e stretti che ci restano.

L’Unità, 21 ottobre 2008

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