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"L'inquietudine che non finisce", di Mario Calabresi

Lo spettacolo pomeridiano del Minskoff Theatre è cominciato regolarmente alle tre del pomeriggio. Le famiglie di turisti che avevano pagato 214 dollari a testa per vedere il Re Leone dalle prime file sotto il palco hanno solo fatto più fatica per entrare.
Una folla di curiosi si faceva fotografare all’incrocio tra la 45ª Strada e Broadway. Da sabato sera sulle guide dei tour organizzati per Manhattan c’è un altro luogo dove bisogna essere stati, vi è già spuntata una bancarella con magliette «I love NY» e bandierine a stelle e strisce. Ora è il momento di farsi immortalare nel punto esatto dove New York avrebbe potuto trasformarsi in Baghdad. Sono gli stessi turisti che con la linea 1 della metropolitana si spostano da Sud, da quel che resta di Ground Zero – che finalmente non è più un buco ma vede crescere l’erede delle Torri Gemelle – a Nord, all’ingresso dell’elegante Dakota, il condominio di fronte a Central Park, dove trent’anni fa venne assassinato John Lennon. Due portieri in livrea ancora ieri mattina si affannavano a spostare i curiosi che si arrampicano perfino sulla facciata per portarsi a casa un’immagine ricordo.

La vita e lo spettacolo a Times Square sono ripartiti identici, dopo un sabato sera surreale in cui c’è stato soltanto silenzio e poliziotti in tenuta antiterrorismo che sigillavano ben dodici isolati. Ma se per il turista di passaggio questo è solo un altro scatto, per i newyorchesi la fallita autobomba è il risveglio di un’inquietudine che da quasi nove anni vive sotto la loro pelle. Dal giorno in cui si sono sentiti vulnerabili. Da quell’11 settembre in cui l’onnipotenza di una città è crollata insieme alle Torri Gemelle. Sui muri della metropolitana e sulle fiancate degli autobus è sempre rimasto ben visibile il messaggio simbolo: «If you see something, say something» se vedi qualcosa, segnalalo immediatamente. Si è ironizzato molto su questa scritta ripetuta ossessivamente in inglese e spagnolo, su quei cartelli che invitavano a denunciare qualunque cosa e chiunque risultasse fuori posto.

Ma l’eroe del sabato sera, un venditore ambulante di magliette con un passato da soldato in Vietnam, ha agito secondo le procedure e oggi viene premiato come esempio. Anche l’America di Barack Obama sembra non poter fare a meno di quegli standard di paura e sicurezza dettati da Osama bin Laden e da George Bush.

New York conosce le autobombe: nel 1993 – in quella che fu una sorta di prova generale del terrorismo islamico sul territorio americano – 680 chili di esplosivo furono piazzati nel parcheggio sotterraneo della Torre Nord del World Trade Center. Allora ci furono solo sei morti e un migliaio di feriti e le Torri Gemelle rimasero per altri otto anni al loro posto. Ma i sodali dello sceicco cieco Omar Abdel-Rahman – che sconta il suo ergastolo in Nord Carolina – si presero la rivincita nel 2001 cambiando la storia e il sentimento di una città. Ma se l’idea dell’autobomba a noi europei parla oggi di Baghdad come in passato significava Beirut, negli Stati Uniti è associata all’impresa più tragica delle milizie estremiste e razziste bianche, quelle che con un camion bomba nel 1995 sbriciolarono il Palazzo Federale di Oklahoma City uccidendo 168 persone tra cui 19 bambini dell’asilo.

Chi voleva trasformare il Centro turistico di Manhattan, la casa dei musical, del divertimento per famiglie in un teatro di distruzione e sangue? Tutte le piste e le ipotesi sono aperte. Dagli estremisti islamici che continuano ad odiare l’America ai gruppi della razza ariana che odiano invece soltanto il suo Presidente nero. Sappiamo che la vita continua ma che quell’inquietudine newyorchese resta intatta, perché quei tremila morti di nove anni fa non sono dimenticati e perché dall’inizio del millennio sappiamo che il nostro mondo e il nostro modo di vivere sono cambiati per sempre.

La Stampa 03.05.10