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"Giocare per guarire dal terremoto", di Silvia Vigetti Finzi

L’ improvvisa perdita dei giocattoli, temporanea o definitiva, deve essere stata per i bambini delle aree dell’Emilia Romagna sconvolte dal terremoto un’esperienza particolarmente dolorosa. Successivamente recuperati o acquisiti, però, i giocattoli hanno anche costituito una risorsa importante per superare lo stress post traumatico e ritrovare la calma e la serenità.
Come insegna la psicoanalisi, infatti, il gioco esprime il mondo interno del bambino e il suo rapporto con gli altri. Come tale è terapeutico in se stesso: giocando, il bambino si educa e cura e i giocattoli costituiscono un farmaco, così come la loro perdita è un veleno.
Il significato e il valore delle cose che consideriamo «nostre» emerge pienamente, crudelmente direi, soltanto quando le perdiamo, quando escono dalla nostra sfera di possesso e di controllo. Sul vuoto, che subentra al posto di ciò che non c’è più, si installa il ricordo con una evidenza lancinante, come se i sensi cercassero, in un tentativo di onnipotenza, di restituirci quanto ci è stato sottratto. Non a caso, «San Giuan dalla barba bianca, fam truà quel che me manca» è la cantilena che i bambini implorano mentre esplorano lo spazio circostante alla ricerca di ciò che è incomprensibilmente svanito nel nulla.
Alla luce di questa considerazione mi chiedo se abbiamo davvero compreso il dolore delle popolazioni che, nelle catastrofi ambientali, hanno perduto (non voglio qui parlare delle persone) gli oggetti più cari. La sottrazione non causa solo una perdita materiale ma anche affettiva, una perdita che ferisce la mente e il corpo, che ne resta quasi mutilato.
Molti oggetti fanno parte del nostro schema corporeo, partecipano della nostra immagine così come la percepiamo dal di dentro e come ci viene rimandata e confermata dal di fuori. In questo senso è evidente la funzione degli abiti, dei gioielli, degli arredi più prossimi al corpo come il letto dove dormiamo, soprattutto il guanciale, la tavola su cui mangiamo, la macchina che siamo soliti guidare e così via. Gli oggetti sono un concentrato di storia, una sedimentazione della nostra vita e, quando svaniscono, portano con sé affetti e ricordi, memorie e speranze.
E i giocattoli? Poche cose fanno parte della sfera più intima quanto i giocattoli. In particolare i primi, quelli transazionali che il bambino colloca dentro e fuori di sé.
Che cosa può provocare, in termini emotivi, perderli di colpo, da un momento all’altro, senza preavviso, senza aver il tempo di farsene una ragione e di prendere commiato come avviene alla fine dell’estate, quando i bambini ripongono i giocattoli da spiaggia?
Immagino che, per i piccoli, in particolare per quelli che si sono svegliati lontani dalle loro case, non trovare più i propri giocattoli sia stato un attentato ai sentimenti fondamentali: la sicurezza e la fiducia. Poiché il pensiero infantile funziona in modo semplice e assoluto devono aver pensato: «Come è sparita la bambola, l’orsacchiotto o la macchinina, tutto può sparire».
Certo, la presenza della mamma e delle persone care deve essere stata rassicurante, deve aver dimostrato che non tutto è perduto e che la vita continua. Ma gli oggetti non si lasciano dimenticare così facilmente e, per superare l’angoscia della loro «morte», deve essere stato necessario il lavoro del lutto. Non a caso uso il termine «morte» perché per i bambini i confini del vivente sono piuttosto labili e tra un gatto reale e un peluche non c’è per loro una gran differenza.
D’altra parte se non sapessimo dar vita alle figure, ai suoni, alle parole, alle cose inanimate non ci sarebbe cultura.
E proprio alla capacità della cultura di produrre simboli capaci di sostituire l’assenza dobbiamo la relativa serenità dei bambini colpiti dal terremoto. Giustamente la costruzione di ludoteche, di spazi attrezzati per far giocare i bambini è stata una delle prime preoccupazioni dei soccorritori.
Deve essere stato difficile superare il senso di estraneità, rendere familiare un tendone o un prefabbricato, rispetto alle proprie stanze, così come sostituire giocattoli qualsiasi a quelli usati e amati. Ma l’accoglienza, l’empatia, la comprensione, la compartecipazione espressa dagli educatori e dagli animatori può aver fatto miracoli.
Se lo stress post traumatico, che sappiamo dura almeno un anno, sarà superato, molto si deve alla dimensione ludica dell’assistenza psicologica. La resilienza è resa possibile dalla condivisione della sofferenza che, nel dialogo, fatto anche di semplici gesti, trova la sua stazione di partenza. «Io comprendo solo ciò che condivido», sostiene Christa Wolf. E condivisione vuol dire in questi casi mettersi nei panni del bambino, soffrire e gioire con lui.
Non si tratta soltanto di ritrovare proprio quel giocattolo, di rimediare a quella specifica perdita, ma di renderne possibile la sostituzione. Il bambino che ha recuperato sicurezza e fiducia proietta su un’altra cosa, a sua scelta, quel fascio di affetti che aveva riservato ai suoi primi amori.
La stessa funzione può essere svolta dai videogiochi? Credo proprio di no. Giocare sullo schermo, superare le sfide poste dalla programmazione, può servire a distrarre, eccitare, stimolare le capacità intellettuali, ma il corpo rimane inerte e il cuore gelato.
Solo i giocattoli tradizionali, mi verrebbe da dire «in carne e ossa», possono mettere al mondo il mondo così che la vita possa ricominciare e il dolore di ieri trasformarsi nella forza di domani.
Il Corriere della Sera 13.09.12