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"La Corte Europea e quel «no» alla diagnosi preimpianto", di Marilisa D’Amico

Vi sono molti motivi per chiedere al Governo di non impugnare la sentenza della Corte di Strasburgo (Costa e Pavan c. Italia) che ha riconosciuto all’unanimità che il divieto di accesso alla diagnosi genetica preimpianto previsto dalla legge n. 40 per le coppie portatrici di gravi malattie genetiche viola l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Dal punto di vista di principio, innanzitutto, la decisione europea ha affermato l’incoerenza di sistema del divieto, rispetto alla possibilità garantita dal nostro ordinamento di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza per quegli stessi motivi che fondano la richiesta di accesso alla diagnosi preimpianto. In secondo luogo la Corte ha dichiarato l’irragionevolezza della compromissione del diritto della coppia al rispetto della propria vita familiare.
I motivi che fondano la richiesta di non rinviare il caso alla Grande Camera sono di ordine tecnico-giuridico e prescindono dalla considerazione, pure non di poca consistenza, per la quale sembrerebbe veramente crudele che il Governo, con un suo atto, cerchi di impedire a quei ricorrenti di godere di un diritto riconosciuto e quindi da applicare.
Il primo motivo è strettamente tecnico e processuale. Si tratta infatti di una decisione che è stata adottata all’unanimità. Questo dato impone di riflettere sulla stessa opportunità di chiedere il rinvio alla Grande Camera. Occorre infatti soffermarsi sulla natura del sistema di tutela predisposto dalla Corte europea dei diritti umani, che prevede la possibilità di un “rinvio” alla Grande Camera, nel caso in cui vi siano gravi problemi di interpretazione o di applicazione o una questione importante di carattere generale. In particolare, il rinvio alla Grande Camera non può essere inteso quale secondo grado di giudizio, se si considera come la disposizione sia stata frutto di un compromesso tra due diverse impostazioni, l’una diretta a creare un vero e proprio doppio grado di giudizio, l’altra tesa a mantenerne uno solo. Considerando quindi che la decisione è stata adottata all’unanimità e che il sistema predisposto dalla Corte non prevede un doppio grado di giudizio, non si comprende per quale motivo si debba chiedere il rinvio di un caso sul quale non paiono esserci gravi problemi interpretativi e applicativi.
Il secondo motivo riguarda il merito della questione. La decisione infatti riconosce un principio fondamentale, già riconosciuto peraltro dai giudici italiani, anche se in via generale. E, infatti, si è stabilito che anche coloro che sono fertili o non sterili, ma portatori di gravissime malattie genetiche possono accedere alle tecniche assistite e dunque anche alla diagnosi preimpianto. A partire dal riconoscimento che i diritti alla salute e all’autodeterminazione della coppia nelle scelte procreative rientrano nei diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., si riporta in questo modo a coerenza l’ordinamento giuridico italiano, che riconosce la possibilità di effettuare esami prenatali e di procedere all’interruzione volontaria della gravidanza nel caso in cui, fra gli altri, sia accertato che l’embrione è affetto da una grave malattia genetica, a tutela della salute fisica e psichica della madre. Questa ultima condizione sarebbe proprio quella in cui si trovano le coppie portatrici di gravissime malattie genetiche e che fonda il loro diritto di accedere alla diagnosi preimpianto. È uno strazio insostenibile temere la sofferenza, la malattia e la morte del figlio che si aspetta.
Il terzo motivo che induce a ritenere che non si debba chiedere il rinvio alla Grande Camera riguarda il riferimento al «diritto alla vita familiare». Il riconoscimento di questo diritto non si traduce, nella materia della procreazione assistita, in un diritto ad avere un figlio sano. Al contrario esso si traduce – nei casi concreti, drammatici, che invitiamo i tecnici-teorici (per la maggior parte si sono espressi in questo senso uomini) a conoscere direttamente – nella sola possibilità di poter avere un bambino.
Inoltre, il riconoscimento dell’accesso per le coppie non sterili e fertili alla diagnosi preimpianto – stante l’ormai pacifico riconoscimento della possibilità di effettuare questo esame per le coppie sterili e infertili – consente di evitare una ulteriore discriminazione. Le coppie infatti sanno che per avere un figlio al quale non venga trasmessa la grave malattia genetica devono necessariamente accettare il rischio di un aborto, magari terapeutico, oppure la morte del figlio dopo pochi mesi o anni di vita. Concludendo, occorre tenere ben presente che nella nostra Costituzione è riconosciuta e garantita la dignità delle persone e quindi anche delle donne, sul cui corpo molto e troppo spesso si scontrano opposte posizioni ideologiche.
l’Unità 21.09.12