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“Soluzione a metà”, di Luciano Gallino

L’aspetto più importante del decreto legge sull’Ilva sono a ben vedere le dichiarazioni del ministro Passera: se la proprietà non esegue quello che la nuova legge prevede il governo potrebbe varare la procedura di amministrazione controllata.
Al riguardo i dettagli non sono al momento disponibili, almeno non negli estratti del decreto accessibili a tarda sera, ma il pronunciamento del ministro dello Sviluppo, in sintonia con le analoghe dichiarazioni del ministro dell’Ambiente Clini, sembrano proprio significare che se questa volta l’azienda non porrà in essere gli interventi anti-inquinamento, rischia di perdere la proprietà o quanto meno il controllo dell’impianto di Taranto. L’adozione di tecnologie adeguate per abbattere radicalmente gli inquinanti emessi dallo stabilimento costerà miliardi. È giusto che sia la proprietà a pagare, come avrebbe dovuto fare da almeno vent’anni, ed è bene che sia posta di fronte a penalità severe che dovrebbero entrare automaticamente in vigore a fronte di ritardi o inadempienze.
Per il resto la soddisfazione dinanzi al decreto governativo non può che essere modesta. È vero che nei prossimi giorni i lavoratori dello stabilimento ritorneranno al lavoro, ma le condizioni in cui lavorano saranno a lungo le stesse di prima. Respireranno gli stessi inquinanti, forse in dose lentamente calanti, e le polveri e le sostanze nocive che da decenni appestano Taranto continueranno a posarsi sulle loro case e sulle loro famiglie e ad essere inspirate da adulti e bambini. Il conflitto con la magistratura locale rimane aperto, comunque si voglia rigirare la questione. Essa voleva fermare l’inquinamento – era un suo preciso dovere – ma il decreto la scavalca stabilendo che per intanto il lavoro è più importante della salute, e però nel volgere di alcuni anni le emissioni nocive dello stabilimento finiranno per essere ricondotte entro quei limiti che in realtà avrebbero dovuto essere in vigore da una generazione.
Quel che ora ci si può aspettare dal decreto in parola e dalle integrazioni tecniche ed economiche di cui sicuramente avrà bisogno è che esso imponga alla proprietà di impegnarsi all’installazione dei dispositivi anti-inquinamento con la maggior urgenza possibile; che richieda perentoriamente di impiegare in tale compito il massimo di manodopera e il meglio delle tecnologie oggi disponibili a livello mondiale; che preveda l’impiego di squadre di controllo specializzate e indipendenti che ogni giorno accertino se la direzione dell’Ilva ha rispettato i traguardi di tempi e di installazione; infine che preveda sanzioni immediate e durissime ogni volta che si constati una eventuale infrazione di tempi e di tecniche da parte della direzione.
Restiamo in fiduciosa attesa di conoscere tutti questi provvedimenti.
Il governo ci ha dormito un po’ sopra, alla questione Ilva. Tutto sommato l’intervento della magistratura di Taranto risale al luglio scorso. Ora che si è dato finalmente una mossa, bisogna chiedergli che si impegni a fondo per coinvolgere la magistratura stessa nella messa in atto delle disposizioni del decreto, nonché nella sorveglianza sui modi in cui vengono eseguite. Non solo perché la magistratura, con i suoi esperti, ha mostrato di conoscere meglio di chiunque altro quale fosse la reale nocività dell’impianto. Ma anche perché un decreto emanato dal governo che aggira una sentenza della magistratura rappresenta una tale ferita all’ordinamento costituzionale che non può essere tollerata se non per un brevissimo periodo di emergenza. Nessun ministro della Repubblica può dire “io sono la legge, quindi la magistratura deve cedermi il passo”. O al massimo può dirlo una volta sola, in una situazione di estrema necessità, per correre subito dopo ai ripari al fine di ristabilire anche nel caso Taranto l’indipendenza tra i poteri fondamentali che la Costituzione prevede. Il giorno che vede rinascere a Taranto la speranza di poter conciliare finalmente lavoro e salute, grazie a un intervento del governo di non comune incisività, non deve passare alla storia come il giorno in cui un pezzo di Costituzione è stato abrogato.
La Repubblica 01.12.12