attualità, politica italiana

“Il dilemma del premier”, di Michele Prospero

Un partito solo, il Pd. E intorno aborti di partito, liste di magistrati, di comici, di transfughi. Con combinazioni cromatiche varie e da terre esotiche, miriadi di formazioni politiche sbucano come funghi. Senza storia, marciano verso il voto con un assillo: separare il candidato premier dal capo della coalizione, per entrare così in Parlamento superando le severe soglie del congegno elettorale. Anche il nascituro partito di Monti è solo un cartello elettorale o aspira a una identità e a un radicamento? Se in cantiere è un’altra lista, prosegue la decadenza della forma della politica. Se invece in gestazione è un partito, con un programma e con una fetta di società, è una sfida da valutare nella sua effettiva realizzabilità. Che i moderati intendano recidere la destra antipolitica e occupare uno spazio politico, non è uno scandalo. Qualcosa di simile andrà pur fatta per dare sepoltura a una destra aziendalista refrattaria ad assumere un’anima politica. Il problema è però relativo ai tempi e alle forze disponibili per la sfida. Una mossa solo in astratto coerente con il disegno di normalizzazione del sistema, diventa velleitaria se è in contrasto con i tempi e senza radici nella società.
Una ripresa dell’area moderata non può avvenire con un gesto deciso all’ultimo istante da un casco blu che da costruttore di tregua si muta in soldato che marcia alla conquista del potere. Se entra il lizza, Monti ritiene che la rottura con i custodi della Repubblica, che pure l’hanno inventato nel ruolo, sia un costo da sopportare. Ma può il centro che si oppone al populismo ricostituirsi anch’esso con una tipica sceneggiata populista, come quella di un capo senza partitocheentranell’arenacome un leader solitario in lotta proprio contro i partiti (anzitutto il Pd)?
Al racconto del comico subentra la favola del tecnico che si propone come soluzione all’enigma della «castologia». Il mite populismo del centro può scardinare il rude populismo della destra? I limiti del sostegno sociale al progetto di Monti paiono così evidenti, è inutile scomodare come modello la vecchia Dc interclassista e popolare. I poteri che manovrano il partito dei tecnici sono forti. La finanza, le banche, le grandi industrie, le televisioni, i giornali non godono però di un seguito numerico vicino al loro peso economico e mediatico. Questo mondo della grande influenza e del denaro non riesce ad essere egemone e a catturare gli umori bollenti intercettati dalle destre populiste. Il transito del populismo padano e dello spirito revanscista della destra nei lidi più calmi della tecnica non pare agevole. Il partito di Monti ha limiti espansivi strutturali che ne inibiscono la penetrazione. L’antipolitica non domanda efficienza, lealtà fiscale, competizione, innovazione ma invoca protezione, complicità, opacità.
Economicamente potente ma socialmente fragile, l’area di Monti non ha una forza tale da giocare la partita della leadership di governo. Potrà certo aggregare i tanti centri ora dispersi e rosicchiare anche un marginale consenso alle due grandi aree ma, oltre un’azione di parziale rimaneggiamento, non si dispiegano delle forze tali da alterare gli equilibri già maturati. È arduo che da una manovra studiata a tavolino per determinare un ingorgo al Senato possa scaturire un riallineamento sistemico.
Se ha successo, e cioè ottiene il pareggio al Senato, Monti precipita in un dilemma: o crea instabilità, o collabora con il partito più grande restando però in posizioni marginali. Con l’ostruzionismo, Monti tradisce la ragion d’essere della sua discesa, che è quella di sedare gli incubi dei mercati sulla instabilità della politica. Con la contrattazione post-elettorale, riesuma una pratica deteriore da non rimpiangere.
Nel dopo voto, Monti o adotta inverosimili tattiche di guerriglia a Palazzo Madama scatenando le furie degli investitori, oppure si rassegna ad una subalterna collaborazione con il governo. Se prevale un calcolo cinico, fa saltare tutto in aria. Se vince la cautela, non si vede come Monti possa conquistare lo spazio ora occupato dai populismi e abbozzare un partito alternativo alla sinistra. Se il centro è condannato alla responsabilità, e quindi a bandire condotte corsare, che senso ha sfidare equilibri istituzionali e rendere più arduo il lavoro per le inevitabili ricuciture politiche?
La logica politica di una lista Monti non si comprende sul piano dell’efficacia storica. La creatura è solo competitiva con i progressisti o è alternativa alla sinistra, in piena nostalgia del 1994? Non è questo il tempo per un centro in grado di prosciugare il bacino della destra populista. Una sigla personale di Monti non può acciuffare il consenso del micro capitalismo arrabbiato, dei ceti bruciati dall’antipolitica. Senza un patto con il Pd, riaffiora lo spettro del 1994, con la grande borghesia che, per ostruire il cammino alla sinistra riformista, è disposta a tutto, anche a combinare pasticci.
L’Unità 19.12.12