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“No al welfare minimo che penalizza le donne”, di Rosanna Rosi*

Politiche pubbliche inclusive e un welfare di qualità sono la condizione necessaria per sostenere il lavoro e quindi la libertà e l’autonomia delle donne nel nostro paese. La realtà ci pone tre evidenze: la prima è che siamo di fronte ad una riduzione progressiva del perimetro del welfare italiano. L’equazione non dimostrata tra welfare uguale costo ha comportato tagli progressivi alla spesa pubblica senza riqualificarla, con la riduzione al minimo delle prestazioni sociali, definendo un catalogo sempre più ridotto di prestazioni erogate dal pubblico e ampliando il catalogo di quelle da affidare al mercato privato. La svalorizzazione del lavoro pubblico, con l’aggressione ossessiva nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori ed in particolare del sociale e della scuola, è nello stesso tempo conseguenza e segno della scelta di ridurre il peso e il perimetro della rete di protezione sociale. Ormai ci è chiaro: siamo avviati verso un welfare minimo, costruito secondo una logica assicurativa, individuale e non solidale, che esclude sempre di più le persone, ed in particolare donne, giovani, immigrati, anziani. La seconda evidenza è che l’assenza o la scarsità di servizi vengono scaricati sulle donne che si caricano sempre di più di lavori di cura il cui valore non viene riconosciuto né socialmente, né economicamente, né dal punto di vista previdenziale. Gli stanziamenti del fondo per le politiche sociali sono passati da 1 miliardo di euro nel 2005 a 178 milioni nel 2012. La disponibilità di asili nido è di importanza strategica per promuovere l’occupazione femminile ed importante per lo sviluppo cognitivo dei bambini, per questo motivo tra gli obiettivi della strategia di Lisbona per il 2010 era previsto anche l’aumento dell’offerta di nidi fino a coprire il 33% della popolazione nella fascia di età sotto i tre anni; un incremento del numero dei nidi del 10% farebbe aumentare la probabilità di lavorare del 7% per le donne più istruite e addirittura del 14 % per le donne meno istruite. Ma nel nostro Paese si arriva ad una copertura che va oltre il 20% (Emilia Romagna) mentre siamo fermi al 5% nelle regioni del sud. A queste carenze si somma un altro fenomeno: nelle famiglie in media il 76% del tempo dedicato al lavoro familiare è sulle spalle delle donne. Oggi ancora il 40% dei padri dedica zero ore alla cura dei figli e il 27% non contribuisce al lavoro domestico. Quindi meno servizi e minor condivisione dei lavori di cura corrisponde ad un maggiore impegno delle donne nella cura di bambini e anziani e comporta minori opportunità di lavoro o comunque più difficoltà a rimanere al lavoro. E qui arriviamo alla terza evidenza. L’occupazione delle donne nel nostro Paese è bloccata. Sempre più donne lasciano il lavoro per l’assenza e il costo dei servizi pubblici. Eppure tutti gli indicatori disponibili ci dicono che: il lavoro delle donne crea sviluppo, mette in moto l’economia perché determina domanda di beni e servizi e produce a sua volta altro lavoro. Un aumento della partecipazione femminile fino a raggiungere la soglia del 60% di donne occupate(obiettivo di Lisbona ), produrrebbe in Italia un incremento del Pil del 7%, secondo la Banca d’Italia; un aumento dell’occupazione femminile che raggiunga quella maschile potrebbe generare incrementi del Pil del 22% in Italia, più alto che altrove. Per tutto questo possiamo affermare che il welfare minimo, cioè la riduzione di investimenti pubblici in servizi, il taglio lineare della spesa dedicata ,dei trasferimenti agli enti locali e l’azzeramento dei Fondi sociali nazionali, per esempio quello sulla non autosufficienza, sono l’ostacolo principale all’incremento dell’occupazione delle donne e che dalla crisi si può uscire anche con investimenti pubblici di rilancio del welfare, generatore potente di domanda pubblica di qualità, di coesione sociale. Nostro compito è oggi passare da questa convinzione ad azioni concrete per cambiare questa situazione, perché le donne cambiano… il welfare. Non è un’impresa impossibile, la storia recente ci dice che le donne hanno già cambiato molto portando benefici per tutti
*Responsabile Ufficio Politiche di genere CGIL
L’Unità 20.12.12