attualità, politica italiana

"Il Belpaese e la normalità della corruzione", di Guido Crainz

Che cosa è successo davvero al Paese in questi anni? Perché ci troviamo di fronte ad una devastazione dell’etica capace di evocare, talora in forme ancor più squallide e pervasive, il fantasma di Tangentopoli? Lo rimuovemmo per quasi vent’anni, quel fantasma, per riscoprire all’improvviso grandi e piccole vergogne.
PER RISCOPRIRE le cricche e le banconote nascoste in un pacchetto di sigarette, o la risata di un imprenditore nella notte del dolore aquilano: da Tangentopoli, insomma, non eravamo mai usciti, e riprese poi una slavina che non ha risparmiato quasi nessuna istituzione o parte politica. Quasi nessuna area del Paese. E siamo ora a chiederci che cosa non abbiamo compreso del nostro passato e che cosa semmai è cambiato: da dove nasce cioè una violazione quotidiana della legalità che non riguarda più solo la politica.
Era prevedibile, purtroppo, come era stato prevedibile quel che le indagini di Mani Pulite misero in luce. Italo Calvino aveva descritto lucidamente la realtà già nel 1980, in un “Apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti” dall’inizio fulminante: «C’era un Paese che si reggeva sull’illecito ». Calvino proseguiva: «Nel finanziarsi per via illecita ogni centro di potere non era sfiorato da nessun senso di colpa perché (…) ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale ». Una illegalità profondamente interiorizzata, dunque, e quasi “sincera” nella sua arroganza: di qui il carattere drammatico che il disvelamento talora ebbe, le crisi laceranti che talora indusse. “Rivelava” le conseguenze di una lotta per l’occupazione dello Stato e dell’economia condotta negli anni Ottanta da partiti sempre più privi di progetti e ragioni ideali (lo analizzava con dolente lucidità uno storico attento ai valori etici e civili come Pietro Scoppola). Sullo sfondo, allora, un Paese immerso nei falsi bagliori di una “modernità” basata su consumi e arricchimenti sfrenati, artificialmente alimentati da un debito pubblico che ingigantiva. Un Paese che si illudeva di poter sperperare senza pagare dazio: e dilapidava così non solo il proprio denaro ma anche il proprio essere responsabile e civile. Un vero dramma, insomma, di cui il degradare del ceto politico era l’espressione più visibile ma non l’unica, come per un attimo ci illudemmo.
Per certi versi oggi siamo ancora oltre, con il dilagare di una “normalità della corruzione” in cui confluiscono, nelle loro differenze, il Batman di Anagni e l’industria privata e pubblica, il potentato lombardo di Formigoni e il Monte dei Paschi di Siena, manager e immobiliaristi, con un melmoso e infinito contorno di nutelle, cartucce da caccia e usi ancor meno nobili del denaro dei cittadini. Sullo sfondo, oggi, il ventennio berlusconiano e la crescente centralità di un arricchimento privato che era elemento solo accessorio, e spesso perfino assente, nella corruzione politica di vent’anni fa. Le cronache inoltre ci dicono con impietosa chiarezza che oggi è chiamata in qualche modo in causa non solo la classe politica ma una classe dirigente più ampia: quella “società stretta” – quella élite, in altri termini – su cui Giacomo Leopardi rifletteva quasi due secoli fa analizzando «lo stato presente del costume degli italiani». Da essa, annotava, viene l’impronta a tutta la nazione, e qui vi è però una differenza di enorme rilievo rispetto ad altri Paesi europei: «Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero». Da noi non è così, concludeva Leopardi, e da questo nasceva il suo rovello. A questo rinviano anche, pur in forme diverse, le domande che attraversano oggi un Paese in sofferenza, impoverito, attraversato da pulsioni spesso dolorose. Scosso alle fondamenta da una sfiducia nella politica che dà fiato a nuovi avventurieri del populismo antipolitico – come avvenne già negli anni Novanta – e al tempo stesso tiene artificialmente e paradossalmente in vita i più vecchi e screditati araldi di quegli stessi inganni. E siamo alla vigilia di un voto che può essere decisivo, in diverse e opposte direzioni. Può aprire varchi a disastri persino inimmaginabili se dà vita ad un Parlamento ingovernabile o pesantemente condizionato dal centrodestra. Ma può anche dare il primo avvio ad un’inversione di tendenza: il primissimo passo di una risalita inevitabilmente lunga e difficile. Oggi più che mai la speranza di un “buon voto” può esser tenuta in vita ed alimentata solo da un impegno del centrosinistra di grandissimo respiro, in primo luogo sul terreno che ha visto le frane più devastanti. Dalla politica sono venuti molti anni fa i segnali più visibili di un degrado avanzante, spetta oggi alla politica dare impulso ad un possibile cambiamento di rotta.
È indubbiamente essenziale che il centrosinistra illustri con la massima chiarezza sino all’ultima ora, sino all’ultimo minuto le sue proposte principali, da quelle fiscali a quelle relative alla crescita. E indichi gli strumenti e le competenze che saranno messe in campo, anche con la delineazione di un possibile governo di altissimo profilo: una “squadra di governo” capace di dare fiducia e speranza ad un’Italia sperduta, provata, talora incattivita. Vi è però un impegno preliminare e non rimandabile, da “comunicare” con una nettezza e chiarezza senza precedenti: misure assolutamente drastiche ed esemplari contro la corruzione e al tempo stesso tagli fortissimi ai costi e agli sperperi della politica. Misure da adottare – queste sì – nel primo consiglio dei ministri dopo le elezioni, nella sua primissima delibera. È un impegno assolutamente indispensabile per poter parlare al Paese. Per garantirgli che si può uscire insieme dalla bufera, e da una crisi del sistema politico sin qui incapace di riformarsi. E incapace quindi di riformare l’Italia.

La Repubblica 17.02.13