scuola | formazione

"Così si uccide la scuola pubblica", di Chiara Saraceno

Una prima elementare a tempo pieno di una città del Nord, in un quartiere popolare con una forte presenza di immigrati. Trenta bambini per lo più eccitati dall´essere entrati tra i “grandi”, ad imparare le cose “dei grandi”, dopo il lungo apprendistato della scuola dell´infanzia, ove hanno da tempo imparato diverse cose, che un tempo si imparavano solo alla scuola elementare: non solo ad utilizzare il disegno come forma di comunicazione, ma a scrivere il proprio nome, riconoscere i segni identificativi del proprio e altrui posto, muoversi negli spazi e utilizzarli appropriatamente. Una buona metà sa già leggere e scrivere, pur con diversi livelli di competenza. Altri, anche tra gli italiani, fanno invece fatica ad esprimersi. Tra i figli di immigrati, ci sono diversi livelli di competenza linguistica: qualcuno padroneggia l´italiano come i coetanei italiani, con cui spesso è stato alla scuola materna, altri sono appena arrivati e stanno incominciando a impararlo, insieme a tutte le altre novità che comporta l´essere stato trapiantato in un paese sconosciuto.
Di fronte a questi bambini così diversi, ma tutti con le loro attese, curiosità, disponibilità ad essere conquistati dal meraviglioso mondo dell´apprendimento e della conoscenza, una sola maestra. Dato che la compresenza è stata eliminata in nome di esigenze di bilancio, ma anche perché la ministra e i suoi consiglieri la considerano uno spreco inutile di personale a solo vantaggio dei sindacati, una sola maestra per volta deve tener vivo l´interesse di trenta bambini, attenta a non scoraggiare chi è più avanti e a non lasciare irrimediabilmente indietro chi fa più fatica.
E dato che la ministra pensa che il modo migliore di integrare i bambini di provenienza non italiana sia separarli, se invece questi si trovano in mezzo ai coetanei italiani, non è previsto nessun insegnante che li segua nell´apprendimento della lingua (una misura da tempo inventata in paesi con una storia migratoria più lunga). Certo, negli anni Cinquanta e Sessanta le classi elementari potevano arrivare fino a 40 allievi. Ma era anche il tempo in cui i bambini erano molti di più e in un contesto di risorse – insegnanti, edifici – scarse c´era una sorta di trade off tra l´intento di fare in modo che tutti andassero a scuola e l´attenzione per i diversi ritmi e capacità di ciascuno. I bambini arrivavano a scuola con attitudini e competenze certamente differenziate per classe sociale, ma in un mondo ancora limitato al perimetro della famiglia e della scuola. Non c´era la televisione, il computer, internet. La pubblicità non aveva ancora scoperto i bambini come consumatori. E l´autorità e la disciplina erano lo strumento principe per tenere in ordine la classe, senza troppe preoccupazioni per gli effetti delle disuguaglianze sociali. Infatti i bocciati (già in prima elementare) appartenevano tutti alle classi più svantaggiate.
Quel mondo non esiste più, e le maestre lo sanno bene. Sanno anche che proprio perché i bambini oggi sono esposti ad una varietà di stimoli ed esperienze cognitive ben prima di arrivare nella scuola elementare, hanno bisogno di un insegnamento più dinamico e che riconosca le loro competenze e quindi più attento al diverso ritmo e sviluppo di ciascuno. Tanto più che proprio questa maggiore ricchezza di stimoli rischia di allargare le disuguaglianze sociali: tra i bambini che per appartenenza familiare sono in grado di trarne tutti i benefici ed invece quelli che ne sono esclusi. Ma non si può fare con questi numeri.
Così le maestre si barcamenano, rallentano le fasi dell´apprendimento per non lasciare troppo indietro quelli che partono svantaggiati, senza tuttavia poterlo fare del tutto. Così che comunque qualcuno sarà lasciato ad arrancare mentre i più svegli, o i più avvantaggiati, si annoieranno e forse perderanno per la strada la fiducia che avevano riposto in questa avventura. Ed i genitori che possono permetterselo si chiederanno se non sia meglio iscrivere il figlio ad una scuola privata. È così che si uccide la scuola pubblica, ma soprattutto la curiosità, la voglia di apprendere di chi vi entra con fiducia e desiderio. Non è colpa né delle maestre (che anzi fanno del loro meglio), né degli immigrati, né tantomeno dei bambini e dei loro genitori, con le loro diversità e disuguaglianze. È colpa di una gestione politica della scuola miope e indifferente all´esperienza dei bambini.

La Repubblica 24.09.10