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"Onori, regali, baci i tempi (non lontati) del Muammar Show", di Gian Antonio Stella

«Per dirla alla beduina: sparita la tenda, sparito il problema» . Sono passati solo sei mesi da quando Luca Zaia rise delle polemiche scandalizzate contro il «Muammar Show» concesso a Gheddafi sul suolo italiano. Sei mesi. E già si agita l’incubo che quell’eccesso di salamelecchi riservati al dittatore libico possa esserci rinfacciato. Un problema che non riguarderebbe solo il governo, ma il Paese intero. Per undici volte il Cavaliere, ricevendone in cambio l’agognato accordo sul blocco del traffico di clandestini e qualche regalo come un paio di cammelli (dei quali non si conosce il destino) aveva incontrato il leader della Jamahiriya dal ritorno a Palazzo Chigi nella primavera del 2008 fino agli sgoccioli del 2010
Gli aveva baciato la mano in segno di ossequio. Donato vetri di Murano. Concesso ciò che i libici chiedevano da anni e cioè il riconoscimento, giusto, degli errori e dei crimini commessi dagli italiani durante l’occupazione giolittiana e più ancora mussoliniana. Già che c’era, si era allargato. Promettendo nel marzo 2009 che si sarebbe ripresentato qualche mese dopo a Tripoli per un’occasione speciale: «Tornerò per festeggiare il 40 ° anniversario della vostra grande rivoluzione» . Quel golpe militare che dalla sera alla mattina buttò fuori dalla Libia, impossessandosi di tutti i loro beni per circa 3 miliardi di euro attuali, ventimila italiani. Che erano nella stragrande maggioranza del tutto estranei ai crimini fascisti. E che da allora, ignorati se non guardati con fastidio dagli insofferenti teorici della realpolitik, invocano che venga riconosciuta dignità al loro dramma. Non bastasse, in cambio dell’impegno a frenare l’immigrazione in Italia (contrattato col pagamento di 5 miliardi di euro su cui il raìs arabo aveva rilanciato più volte con richieste sempre più esose all’Europa, come fanno tutti i ricattatori del mondo), il Cavaliere aveva concesso all’amico Muammar, appunto, show indimenticabili. Come il carosello con 30 cavalli berberi diretta tivù alla caserma «Salvo D’Acquisto» . O la possibilità di piantare un tendone beduino nel giardino della palazzina Algardi di villa Doria Pamphili, che proprio per l’amico libico era stata sottoposta a restauri per 994.923 euro. Parecchi, per un ospite che poi dorme in tenda. O ancora la «lectio magistralis» alla Sapienza, dove il despota tripolino al potere da decenni senza la scomodità di elezioni, scodellò tra gli inchini del rettore Luigi Frati indimenticabili sciocchezze che strapazzavano l’etimologia greca: «La democrazia è una parola araba che è stata letta in latino. Democrazia: demos vuol dire popolo. Crazi in arabo vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie. (…) Se noi ci troviamo in questa sala siamo il popolo, seduti su delle sedie, questa andrebbe chiamata democrazia, cioè il popolo si siede su delle sedie. Invece se noi prendessimo questo popolo e lo facessimo uscire fuori, se avessimo invece preso dieci persone e le avessimo fatte sedere qua, scelte dalla gente che stava fuori, e loro invece sono seduti qua, quei dieci, questa non sarebbe da chiamarsi democrazia. Questa si chiamerebbe diecicrazia. Cioè dieci su delle sedie. Non è il popolo a sedersi sulle sedie, questa non è la democrazia. Finché tutto il popolo non avrà la possibilità di sedersi tutto quanto sulle sedie, non ci sarà ancora democrazia» . Quindi perché mai i libici, che hanno già tante sedie senza l’ingombro della libertà, dovrebbero «regredire» al sistema occidentale? Per non dire del surreale battibecco con uno studente sul tema dei diritti umani degli immigrati respinti sui barconi, incarcerati o abbandonati nel deserto. «Come vengono rispettati, in Libia, i loro diritti?» . L’interprete: «Quali diritti?» . «I loro diritti» . «Quali diritti?» . «I diritti!» , gridavano in sala: «I diritti politici» . L’interprete si chinò sul raìs, che si scosse: «Quali diritti?» . E si avvitò a spiegare che, per carità, la domanda faceva onore a chi l’aveva posta ma «gli africani sono degli affamati, non dei politici, gente che cerca cibo» . E i dittatori? «Non ci sono dittatori, in Africa… La dittatura c’è quando una classe sta sopra un’altra. Se sono tutti poveri…» E sibilò: «Volete un milione di rifugiati? Ne volete venti? Cinquanta?» Non bastasse, il satrapo spiegò in Campidoglio, con quel che significa quel luogo non solo per i romani ma per l’Occidente, che «il partitismo è un aborto della democrazia. Se me lo chiedesse il popolo italiano gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché il popolo possa prendere il loro posto. Non ci sarebbero più elezioni e si verificherebbe l’unità di tutti gli italiani. Basta destra e sinistra. Il popolo italiano eserciterebbe il potere direttamente, senza rappresentanti» . Non bastasse ancora, approfittò del palcoscenico straordinario di Roma per rastrellare centinaia di ragazze prese a nolo per 80 euro l’una perché ascoltassero un suo sermone maomettano («Sapete che al posto di Gesù crocifissero un suo sosia?» ), si facessero fotografare con in mano il Corano e magari rivelassero all’uscita di essersi convertite all’Islam. Sembra passata un’eternità, da allora. E un’eternità da quando, solo quattro settimane fa, Franco Frattini citò come risposta all’incendio nei Paesi arabi «l’esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che chiama “dei Congressi provinciali del popolo”: distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader. Cercando una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo sfogatoio della base popolare non esisteva, come in Tunisia. Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta…» A cosa siano servite tutte queste aperture ha risposto nel suo minaccioso proclama alla nazione il figlio del Colonnello, Saif al Islam: «Continueremo a combattere fino all’ultimo uomo, persino all’ultima donna… Non lasceremo la Libia agli italiani o ai turchi…»

Il Corriere della Sera 22.02.11