attualità, politica italiana

"Un'altra destra", di Massimo Giannini

Forse è davvero finita un´epoca, per l´anomala destra italiana nata dalle macerie del popolarismo democristiano e forgiata nel fuoco del populismo berlusconiano. Con il Manifesto di Mirabello, Gianfranco Fini varca un confine e politico, ed entra in una terra incognita sulla quale può costruire finalmente un´”altra destra”. Compiutamente democratica e liberale, moderata e costituzionale. Nel solco delle grandi famiglie conservatrici europee.
Era enorme l´attesa per questo rientro in campo del presidente della Camera, dopo un agosto trascorso nella trincea di Ansedonia a patire in silenzio l´assalto del “Giornale”. Quella di Fini, stavolta, è davvero una svolta radicale. Può ridisegnare geografie e geometrie della politica italiana. E può cambiare il corso della legislatura berlusconiana.
Con un discorso di un´ora e mezzo, degno per toni e per temi di un congresso di fondazione e non certo di un raduno di corrente, Fini ha reciso per sempre le sfibrate e impalpabili radici che ancora lo tenevano unito a Berlusconi. Certo, le vicende personali hanno pesato. La “macchina del fango” messa in moto a Montecarlo dai giornali-fratelli del presidente del Consiglio non può non aver influito sulla reazione durissima messa in scena a Mirabello dal presidente della Camera. Quei “Tg ridotti a fotocopie dei fogli d´ordine del Pdl”, quelle “campagne paranoiche e patetiche”, quegli “atti di lapidazione islamica” e quegli “atteggiamenti infami rivolti non a me, ma alla mia famiglia”: era difficile, se non impossibile, che la rabbia finiana covata in queste settimane ed esplosa ieri dal palco non si traducesse solo in una inesorabile denuncia dell´aggressione subita, ma alla fine sfociasse anche nell´inevitabile rinuncia a proseguire la convivenza politica nel Pdl.
Ma insieme, e oltre alla rottura umana, pesa la rottura politica. Nell´elenco puntiglioso dei motivi che in questi due anni hanno portato al divorzio definitivo tra fondatore e co-fondatore non c´è solo la rivendicazione del diritto al dissenso che dovrebbe costituire l´essenza di un vero “partito liberale di massa”. C´è invece la piattaforma identitaria di una destra politica che non è più conciliabile, e forse non lo è mai stata, con quella berlusconiana. Dall´idea malintesa della “riforma della giustizia” fatta nell´interesse di un singolo e del garantismo come “impunità permanente”, coltivata da chi al potere si sente forte e crede per ciò di essere “meno uguale” degli altri di fronte alla legge, al disprezzo per le istituzioni e gli organi di garanzia, esercitato da chi usa “il Parlamento come dependance dell´esecutivo”. Dalla mancata difesa dei diritti degli “extracomunitari onesti”, praticata da chi declina l´immigrazione come pura “guerra ai clandestini”, alla mancata difesa dei veri valori dell´Occidente, svenduti per bieca “realpolitik” nella “genuflessione” di fronte a Gheddafi. Nell´aspra requisitoria finiana su ciò che è accaduto nel Pdl in questi mesi, non c´è conflittualità “congiunturale” che non nasconda anche un´evidente incompatibilità culturale.
E questo non vale soltanto per la “cifra” identitaria delle due anime che in questi mesi hanno faticosamente convissuto nel Pdl. Vale anche per l´azione di governo, che per Fini è stata deficitaria sotto tutti i punti di vista. Dai tagli lineari di spesa che hanno generato le “proteste sacrosante” delle forze dell´ordine e dei precari della scuola al ridicolo “ghe pensi mi” col quale si è creduto di riempire il vuoto al ministero dello Sviluppo. Dal federalismo inteso come “favore a Bossi” alle promesse tradite sul taglio delle province, sulle norme anti-corruzione, sugli aiuti alle famiglie. Il presidente della Camera non fa sconti, né al Berlusconi-leader né al Berlusconi-premier. E il dissenso, stavolta, è totale e radicale. Di metodo e di merito. Perché Fini ha finalmente il coraggio di dire quello che era ormai chiaro da almeno sei mesi. Da quando cioè, in quell´incredibile direzione del 22 aprile scorso, andò in onda in diretta su tutte le televisioni lo scontro “fisico” tra i due. E cioè che si sente ormai “altro” da questo Pdl, che il Cavaliere ha ridotto a “contorno del leader”, a “coro di plaudenti” o a “popolo di sudditi”. Ha fatto regredire a rozzo “partito del predellino”, o a versione scadente di “Forza Italia allargata a qualche ex colonnello di An” pronto a servire qualunque generale.
Dunque, quando il leader di Futuro e Libertà dice che “il Pdl è morto il 29 luglio”, con quell´atto autoritario di marca “staliniana” con il quale il co-fondatore è stato estromesso, non si limita a chiudere per sempre la breve stagione del Popolo delle Libertà. Fa molto di più. Il suo non è solo l´epitaffio conclusivo di un vecchio ciclo. Ma è anche l´atto fondativo di un nuovo corso. Non c´è ancora l´annuncio ufficiale della nascita del partito, che deve dare forma e sostanza a quello che per ora continua ad essere solo un gruppo parlamentare. Ma c´è già il manifesto di principi e di valori sul quale il nuovo partito sarà edificato. Un partito rigorosamente di destra, questo è chiaro. Pronto a rivendicare il suo Pantheon e a risalire all´Msi di Giorgio Almirante, che Fini non esita a celebrare. Pronto a dimenticare in fretta le tappe di uno “sdoganamento” repubblicano che avremmo voluto assai più sofferto, assai più autocritico. Ma un partito di destra pronto a saldare definitivamente il conto con Berlusconi, e a saldare direttamente la “rivolta di Mirabello” del 2010 con la “svolta di Fiuggi” del 1995. Come se il Cavaliere – in questi quindici anni di “traghettamento” dell´ex Movimento sociale, dalle “fogne” di un tempo alle alte cariche istituzionali di oggi – fosse stato una parentesi. Più o meno felice. Ma ormai chiusa per sempre.
Il presidente della Camera ha cercato in tutti i modi di non vestire i panni del Bruto, capace di accoltellare Cesare in nome di chissà quale congiura di Palazzo. “Né ribaltoni, né cambi di campo”, quindi. Ed è stato attento anche a non offrire alibi al Cavaliere, né sulla fine anticipata della legislatura (che sarebbe “un fallimento per tutti noi”) né sulla minaccia di elezioni anticipate (che è solo “avventurismo politico”). Non solo: il presidente della Camera ha offerto al premier un “patto di legislatura”, per far fare a questo governo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale e non è stato capace di garantire ai cittadini. Certo, in un quadro e in un equilibrio politico diverso, dove la maggioranza non poggia più su “un tavolo a due gambe di Berlusconi e Bossi”, dove i parlamentari non sono in vendita “come i clienti della Standa” e dove le grandi riforme “in nome del bene comune si fanno anche coinvolgendo l´opposizione”. Persino sulla giustizia il leader di F&L si è spinto a dare una sponda estrema al Cavaliere, non certo sul processo breve, ma su un provvedimento che ricalchi il Lodo Alfano e il legittimo impedimento, e gli garantisca “il diritto di governare” senza fare strage dei processi che interessano migliaia e migliaia di cittadini in attesa di giudizio.
Ma è chiaro che, al punto in cui siamo, queste offerte appaiono inutili. Improponibili per chi le formula, e irricevibili per chi le dovrebbe accogliere. Se è vero, come dice Fini, che il Pdl non c´è più, e che “non si rientra in una cosa che non c´è più”, allora è ancora più vero che non c´è più neanche la maggioranza che ha vinto le elezioni il 13 aprile di due anni fa. Ancora una volta, la previsione più sensata l´aveva fatta quell´animale politico che risponde al nome di Bossi: “Fini romperà, e allora vedo grossi problemi per il governo: il Cavaliere sarà un premier dimezzato…”. Il Senatur è stato fin troppo ottimista. Più che dimezzato, stavolta il presidente del Consiglio sembra finito. Ha di fronte a se soltanto una strada: aprire la crisi, e azzardare la richiesta di elezioni anticipate, che non dipendono da lui ma dalle regole della Costituzione e dalle prerogative del Capo dello Stato. E´ un rischio mortale. Il “pifferaio di Arcore” ha smesso di ammaliare i finiani. E forse comincia a incantare un po´ meno anche gli italiani.

La Repubblica 06.09.10

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“La scelta di uscire dal recinto”, di MARCELLO SORGI

Diciamo la verità, è arduo credere che, dopo il discorso di Fini, il «patto di legislatura» che il presidente della Camera ha proposto ieri a Berlusconi, parlando ormai da leader del nuovo partito «Futuro e libertà», possa davvero realizzarsi. Anche se nei prossimi giorni, quando il presidente del Consiglio si presenterà alla Camera a chiedere la fiducia, i finiani gliela daranno, la pietra tombale posta a Mirabello, su un’alleanza che durava da sedici anni, difficilmente potrà essere rimossa.

Non solo per le accuse, e in qualche caso gli insulti (dallo «stalinismo» alla «lapidazione islamica»), che se ripetuti pubblicamente in una prossima campagna elettorale non sarebbero compatibili con nessun tipo di coalizione. Ma anche perché – e qui sta la sostanza politica dell’intervento -, ai famosi cinque punti berlusconiani mirati a verificare l’esistenza in vita della maggioranza, Fini ne ha aggiunto un sesto, la riforma elettorale, che avrà fatto sobbalzare tutti gli osservatori del governo e gioire gli esponenti dell’opposizione.

Non è un mistero infatti che – sia pure in una Babele di proposte che mette insieme confusamente un po’ tutti i sistemi elettorali europei, per non dire del mondo -, esista in Parlamento una maggioranza numerica assai variegata favorevole al cambio dell’attuale legge elettorale, il cosiddetto Porcellum, che assegna un consistente premio in seggi alla Camera e al Senato a chi raccoglie i voti di appena più di un quarto degli elettori. Una minoranza che viene trasformata in maggioranza, appunto, con l’aggravio della scelta di deputati e senatori sottratta agli elettori e riservata in realtà ai capipartito grazie a liste bloccate di candidati.

E’ opinione diffusa anche all’interno di quel che resta del Pdl che Berlusconi, pur godendo ancora di un consenso molto forte nell’opinione pubblica, già con questa legge difficilmente riuscirebbe a ottenere, oltre che alla Camera, la maggioranza al Senato, dove il premio viene assegnato su base regionale. Peggio ancora, nel caso di una riforma che abolisse il premio e all’uscita da una legislatura fallimentare come questa, che lo vedrebbero molto penalizzato.

L’offerta di votare i cinque punti (emendandoli, naturalmente, e riaprendo il dibattito su tutte le questioni più spinose, a cominciare da giustizia, federalismo e misure per l’immigrazione), lavorando nel frattempo per il sesto, la riforma elettorale, è politicamente inaccettabile per Berlusconi. Fini lo sa benissimo e se ne ha fatto un punto fondamentale dell’intervento di Mirabello è perché vuol lasciare a Berlusconi l’onere della rottura. Tra l’altro agitandogli davanti il fantasma di un governo d’emergenza, che anche in caso di una legislatura destinata a concludersi prima della scadenza naturale, si insedi solo per varare nuove norme che consentano ai cittadini di votare in un altro modo.

Fuori da questo incastro, che inserisce un’ulteriore difficoltà in una situazione già molto complicata, Fini ha svolto abilmente il suo discorso, duro e conciliante insieme. Ha parlato da leader, come ama fare, da uomo liberato ormai dalle remore di questo anno e mezzo di sofferente convivenza con il suo ex alleato, e s’è rivolto a tutti quelli, da Tremonti a Casini a Bersani, che per una ragione o per l’altra guardano da tempo al dopo-Berlusconi. Ma pur cercando di ancorarsi stabilmente nel campo da cui proviene, e negando ogni ipotesi di ribaltone o di accordi trasversali con l’opposizione, Fini ha operato cautamente uno spostamento del suo partito, dalla destra alla sinistra del centrodestra.

Non diversamente infatti possono essere interpretati i frequenti appelli all’opposizione, l’attenzione della Costituzione e più in generale alla legalità, i richiami al lavoro e al sociale, alla difesa economica dei giovani e degli insegnanti, oltre che dei poliziotti e carabinieri, declinate con un linguaggio («A Mangano preferiamo Saviano», dicevano gli striscioni di Mirabello) più familiare per le orecchie di centrosinistra, già accarezzate nei giorni scorsi dal ministro dell’Economia, e perfino per quelle del «popolo viola», che non per le agguerrite falangi berlusconiane avvezze a gridare «Silvio, Silvio!». In questo senso, Fini è uscito una volta e per tutte dal solco, che gli è sempre stato stretto, del recinto pidiellino, e ha salutato con gelida sprezzatura il plebiscitario «partito del predellino», che pure aveva contribuito a fondare.

Assodato che il governo, da ieri, è ripiombato nell’incertezza, ad onta della fiducia che già in settimana potrebbe incassare, è ancora presto per dire che ne sarà, a questo punto, della rivoluzione berlusconiana. Una rivoluzione purtroppo inconcludente, che alla fine dei lunghi anni in cui s’è svolta ha portato il Paese nello stallo. E tuttavia, irrinunciabile per Berlusconi e la sua gente. L’alternativa che si prepara non è chiara. C’è pure la possibilità che, da ferma com’è, l’Italia venga spinta a una marcia indietro.

La Stampa 06.09.10