cultura

"Un museo è meglio di Google", di Francesco Bonomi

Aiuto! Aiuto! Nessuno andrà più nei musei!, potrebbe venir voglia di dire dopo aver sentito che Google metterà in rete più di mille immagini, tanto per cominciare, dei capolavori dell’arte esposti nei grandi musei del mondo ad altissima definizione.
Viene da pensare a quando fu possibile cominciare a vedere i film a casa con il videoregistratore. Nessuno andrà più al cinema si disse. Ma non fu così. Quindi la gente continuerà ad andare nei musei? Sicuramente sì. Lo dice anzi proprio in una sua dichiarazione Nelson Mattos, capo della divisione di ricerca di Google Art Project, i capolavori in rete. Mates dice: «La prima volta in un grande museo ci sono stato quando studiavo all’estero: ricordo ancora l’emozione di gironzolare per quelle sale».

Ecco, l’emozione di quel gironzolare, anche se il computer ci prova in tutti modi, non potrà mai essere sostituita dalla tecnologia. Così come le sensazioni di trovarsi in una sala buia in mezzo a tanta altra gente a condividere l’emozione del grande schermo cinematografico non sono mai state sostituite da nessun Vhs, dvd o film scaricato dal computer. Nessun sistema acustico super digitalizzato e perfetto potrà mai sostituire l’emozione di ascoltare un’opera a teatro.

Così come, senza voler fare troppo i colti, nessuno schermo al plasma, per quanto grande sia, potrà sostituire l’emozione di essere allo stadio a tifare per la propria squadra o sulle gradinate di Wimbledon durante la finale tra Federer e Nadal. La tecnologia è fantastica e sicuramente cambia il nostro modo di guardare la realtà, ma tuttavia non riesce a mutare il modo in cui ci emozioniamo nella realtà. Perché l’emozione è anche una questione di scala. Possiamo ammirare le più belle fotografie del Grand Canyon o del Cervino, ma quando siamo lì la maestosità del paesaggio produce un’emozione irripetibile. Possiamo osservare ogni cretto, ogni pennellata, ogni piccola linea di un famoso dipinto, ma esserci fisicamente davanti è un’altra cosa. Davanti alla grandissima bellissima tela di Paolo Veronese «La cena in casa Levi» all’Accademia di Venezia, l’emozione è ben diversa che vederla sullo schermo di un computer, anche se magari lì si possono vedere dettagli che ad occhio nudo ci sfuggono.

Vale la stessa cosa anche per opere piccole come le tele di Vermeer. In questo caso l’intimità dell’opera può essere goduta solo trovandosela davanti. I dettagli non sono di solito quello che gli artisti vogliono darci. L’artista, grande o piccolo che sia, vuole comunicarci nel modo più immediato possibile una sua emozione, un suo pensiero. E’ il romanzo nel suo insieme che ci appassiona, non le sue parole prese singolarmente, anche se poi un linguista potrà analizzarle una per una. Così per un quadro. Non è la singola pennellata, ma l’insieme delle sue pennellate che lo rendono forte, emozionante, bello o brutto a seconda dei gusti e delle intenzioni dell’autore.

Google potrà farci entrare sotto il colore di un quadro anche attraverso le più piccole crepe, come quel film dove i personaggi, rimpiccioliti, viaggiavano dentro il corpo umano. Ma come loro non potevano esplorare pensieri e idee della persona dentro la quale stavano viaggiando, così anche noi non potremo mai avere attraverso l’immagine digitale quell’esperienza unica che solo «gironzolando» fra le sale di un museo potremo avere, consentendoci d’imbatterci in capolavori che pensavamo di stra-conoscere attraverso le loro riproduzioni, ma che una volta che ce li troviamo davanti in carne e ossa, come un famoso attore che incontriamo al bar, capiamo essere qualcosa, se non di completamente diverso, sicuramente di molto più profondo e unico, o forse magari ne rimarremo delusi aspettandoci invece quel qualcosa di più che la tecnologia, forse con troppo zelo, aveva svelato e che invece, nella mente dell’artista, doveva rimanere nascosto.

La Stampa 03.02.11