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"Lo psicodramma delle imposte comunali", di Maria Cecilia Guerra e Alberto Zanardi

Il decreto sul federalismo municipale ha rischiato di mettere fine alla legislatura ed è ora al centro di una forte tensione istituzionale. Ma rappresenta davvero il passaggio cruciale per la costruzione del federalismo nel nostro paese? Il provvedimento è tutto sommato assai modesto. Manca comunque una regolamentazione adeguata del sistema perequativo dei comuni. Mentre l’ossessione per il vincolo di invarianza della pressione fiscale rischia di snaturare il federalismo, il cui principale obiettivo è rendere i sindaci responsabili davanti ai propri cittadini.

MOLTO RUMORE PER UN PROVVEDIMENTO MODESTO

La Lega aveva annunciato che nel caso in cui il decreto sul federalismo municipale fosse stato bocciato dalla Commissione bicamerale, le elezioni sarebbero state inevitabili. Il parere della maggioranza sul decreto – che durante i lavori della bicamerale era stato emendato in alcune parti per raccogliere il consenso dell’Anci – è stato respinto. In assenza di un parere da parte della bicamerale(1), si è fatto ricorso a una procedura di dubbia legittimità: il Consiglio dei ministri ha approvato “in via definitiva” il decreto legislativo, non nella versione originaria – come certamente gli sarebbe consentito – ma in quella formulata nel parere respinto. La responsabilità di dirimere la questione è ora nelle mani del Quirinale che deve emanare il decreto.
Ma veramente la legislatura ha rischiato di cadere, ed è giustificata la tensione istituzionale in atto, per una riformina come quella delle imposte comunali? È a questo psicodramma che ci condanna la bandiera troppo sventolata della “madre di tutte le riforme”.
Una riforma, quella del federalismo fiscale, che più si va avanti nella sua formulazione (di effettiva applicazione si parlerà tra qualche anno) più si rivela per quello che altro non poteva essere: un riassetto, un riaggiustamento di un sistema di decentramento fiscale che già esiste e che è il risultato di almeno un ventennio di progressivi interventi.
Il decreto sul fisco comunale esemplifica alla perfezione il terreno malato su cui sta crescendo la riforma del federalismo fiscale. Il provvedimento è, tutto sommato, assai modesto: si cambia nome all’Ici (ribattezzandola Imu), si “patrimonializza” nell’Imu l’Irpef (e le relative addizionali) sui redditi degli immobili non locati, si crea una compartecipazione sulla tassazione erariale dei trasferimenti immobiliari, si introduce – ma che c’entra con il federalismo fiscale? – un’imposta sostitutiva dell’Irpef sugli affitti per “rilanciare” il mercato delle locazioni. Le misure introdotte mancano poi spesso di coerenza con una visione di insieme del sistema tributario nazionale. Di fatto la riforma si esaurisce in uno spostamento del carico fiscale dai proprietari di case (le seconde a disposizione e quelle date in locazione) alle imprese e ai lavoratori autonomi. L’unica cosa veramente importante, ovvero riportare a tassazione i proprietari di prima casa per ricreare un rapporto di responsabilità tra amministratori locali e cittadini, non si è avuto il coraggio di farla.
La riforma, oltre ad essere modesta, è monca. Manca il pezzo più importante: una regolamentazione adeguata del sistema perequativo dei comuni. La componente tributaria del sistema di finanziamento dei comuni dice poco se non è coordinata con quella dei trasferimenti perequativi. In assenza di coordinamento restano del tutto indeterminati gli effetti redistributivi (tra territori, e quindi anche tra Nord e Sud, e tra tipologie di comuni) delle nuove fonti di finanziamento municipale.

IL SÌ DEI COMUNI

La riforma, nella sua versione finale, è stata valutata positivamente dall’Anci (così come quella sul fisco regionale è stata approvata dalla Conferenza delle Regioni). Non è una garanzia di qualità. Comuni e Regioni sono stati chiamati a pronunciarsi sotto il ricatto dei pesanti tagli delle risorse che hanno subito, da ultimo, nella manovra d’estate. Il criterio che li ha guidati è stato quello di portare subito a casa qualche soldo per chiudere i bilanci. E con il fiato corto, si sa, le questioni più strutturali di disegno della riforma passano in secondo piano.
L’unico vero punto di interesse che la riforma del fisco comunale ha suscitato nel dibattito corrente è l’angoscioso interrogativo: ma alla fine le imposte aumenteranno? Una domanda che ha però ben poco a che vedere con la realizzazione del federalismo. Al contrario, l’ossessione per il vincolo di invarianza della pressione fiscale rischia di snaturare il federalismo, che ha come suo principale obiettivo quello di rendere responsabili i sindaci davanti ai propri cittadini, ponendo questi ultimi nella posizione di giudicare se vi è corrispondenza fra le imposte che pagano e la qualità e quantità dei servizi che ricevono.

(1) Se la bicamerale avesse espresso un parere, varrebbe la norma della legge delega sul federalismo (l. 42/2009) che prevede che “Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, ritrasmette i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni e rende comunicazioni davanti a ciascuna Camera. Decorsi trenta giorni dalla data della nuova trasmissione, i decreti possono comunque essere adottati in via definitiva dal Governo.”; la posizione fatta propria dal governo è invece che la bocciatura della proposta di parere positivo al decreto vada equiparata ad una non formulazione del parere.

da lavoce.info