attualità, politica italiana

"Un sistema paternalistico e datato non aiuta chi ha davvero bisogno", di Chiara Saraceno

Le novità introdotte nel milleproroghe non intervengono sui criteri ancora troppo restrittivi dell´età e della cittadinanza. Nel decreto Milleproroghe ha trovato posto anche la conferma della social card, ovvero di una carta acquisti per un importo di 40 euro mensili, destinata a anziani ultrasessantacinquenni e bambini sotto i tre anni che si trovano al di sotto di una determinata soglia di reddito famigliare e sono cittadini italiani. Molti osservatori avevano a suo tempo segnalato che il doppio vincolo della età e della cittadinanza avrebbe escluso dal beneficio, per altro di importo troppo basso per fare davvero differenza, la grande maggioranza dei poveri, oltre ad esporre l´Italia (per l´esclusione degli stranieri legalmente residenti) al rischio di una procedura di infrazione da parte dell´Unione Europea. La povertà, in Italia, è infatti concentrata, oltre che tra gli anziani, nelle famiglie con tre o più figli minori, a prescindere dalla età di questi ultimi. Senza contare che un bambino non diventa meno povero per il fatto di compiere tre anni. Uno strumento, quindi, doppiamente limitato: nell´importo e nella platea dei potenziali beneficiari.
Il risultato paradossale della seconda limitazione è che il fondo destinato alla social card è rimasto largamente non speso, nonostante l´incidenza della povertà continui ad essere consistente: 5% circa delle famiglie italiane se si parla di povertà assoluta, l´11% se si parla di povertà relativa.
Nel riconfermare la social card ed il suo importo, utilizzando i fondi non spesi, il decreto milleproroghe introduce tuttavia due novità “sperimentali”. La prima, più importante, è l´affidamento, nei comuni sopra i 250.000 abitanti, della sua erogazione agli “enti caritativi” (sic). E´ escluso l´Inps. E i comuni sono solo chiamati ad individuare gli enti caritativi e ad integrarne le prestazioni, con un paradossale rovesciamento del rapporto tra pubblico e terzo settore. Una scelta sorprendente da parte di un governo che si dichiara federalista. Non solo, la definizione ottocentesca di “enti caritativi” chiaramente individua una fattispecie ristretta di soggetti, per lo più esclusivamente di matrice religiosa (cattolica). Il risultato è che viene così negata, anche nel linguaggio, ogni idea che dare sostegno ai poveri sia un obbligo civico di solidarietà e riceverlo un diritto. Diviene un atto discrezionale e paternalistico, che legittima l´ente erogatore (privato) mentre squalifica il beneficiario. La seconda novità, in astratto positiva, è che viene rimandata ad un futuro decreto l´individuazione delle caratteristiche, auspicabilmente meno restrittive in termini di età e cittadinanza, che devono avere i potenziali beneficiari. Non è chiaro tuttavia perché un eventuale allargamento della platea debba riguardare solo i comuni sopra i 250.000 abitanti e i beneficiari della social card erogata dagli “enti caritativi”.
A fronte di questa scelta politica fortemente problematica, appare invece di grande interesse la proposta – idealmente “bipartisan” – delle ACLI, presentata in questi giorni, di sperimentazione di una “Carta acquisti” che copra, almeno in parte, la differenza tra soglia di povertà assoluta e reddito disponibile, tenendo conto del costo della vita nelle varie aree del paese. Titolare dell´erogazione sarebbe l´INPS. Come avvenne nella sperimentazione del RMI, questa misura dovrebbe essere accompagnata da servizi di accompagnamento e integrazione sociale, sotto la responsabilità dei comuni singoli o associati e con la collaborazione sia dei Centri per l´impiego che delle varie associazioni di terzo settore che operano nel capo della inclusione sociale. Si può discutere dell´immagine paternalistica sottostante lo strumento carta acquisti al posto dell´erogazione diretta di denaro. I poveri sono sempre soggetti al sospetto di essere incapaci di spendere bene il poco denaro che hanno. Tuttavia è apprezzabile un modello di politica di sostegno al reddito dei poveri a responsabilità pubblica, con criteri universalistici e non categoriali o discrezionali, che coinvolga tutti gli attori locali rilevanti, e che miri non ad erogare carità, ma a sviluppare competenze e diritti insieme a responsabilità.

La Repubblica 18.02.11

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“La beffa della social card torna con pochi fondi e sarà gestita dai privati”, di Roberto Mania

Solo 750 mila beneficiari, il governo tenta il rilancio. Poveri ma esclusi dalla social card. I poveri più poveri senza fissa dimora, i poveri immigrati perché non cittadini italiani, i nuovi poveri giovani e precari. Poveri. La social card è stata l´unica misura contro la povertà realizzata dal governo ma ha fallito il bersaglio. Ha portato un beneficio a non più del 3-4 per cento delle famiglie, lasciando fuori la stragrande maggioranza di chi ne avrebbe avuto bisogno. L´emendamento inserito nel cosiddetto Milleproroghe, decreto omnibus che ha rilanciato la social card anche in versione privatista con l´entrata in campo degli enti «caritativi» impegnati nel volontariato, ne è l´implicita conferma. La social card non ha funzionato mentre l´Italia – come ha scritto Marco Revelli nel suo “Poveri, noi” – continua a essere «un Paese strutturalmente fragile, fortemente esposto al rischio diffuso di deprivazione, con sacche di povertà superiori alla maggior parte dei nostri partner europei». Abbiamo otto milioni di persone in condizione di povertà relativa e più di tre milioni in povertà assoluta. In tutto quasi quattro milioni di famiglie povere. In poco più di due anni sono stati 750 mila coloro che hanno utilizzato la carta acquisti. Più al sud che al nord. Ma in quel numero del ministero dell´Economia c´è anche chi ha comprato con la carta una sola volta. Dunque sono molto meno le persone che la usano costantemente, 4-500 mila. Perché basta che cambi uno dei requisiti (l´età, per esempio) per non averne più diritto. Eppure il governo stimava in 1,3 milioni i potenziali beneficiari della carta prepagata. Perché è andata così? Perché si è scelta la social card anziché uno strumento di sostegno diretto al reddito come accade in Europa? Perché i più poveri sono rimasti esclusi? Perché, ora, si apre all´ingresso dei privati? E quali privati?

LE ESCLUSIONI
La social card non è stata pensata per tutti. Intanto ha tagliato fuori gli stranieri per quanto residenti e, in molti casi, poveri. La social card è solo per gli italiani, mentre la quota di stranieri che ha perso il lavoro a causa della lunga crisi globale è costantemente in crescita. Lo dicono le tabelle dell´ultimo “Rapporto sulle politiche contro la povertà e l´esclusione sociale” consegnato al governo prima dell´estate: nel 2007 gli stranieri senza lavoro erano il 9,3 per cento del totale, sono passati al 13,5 per cento nel 2008 e al 16,6 per cento nel 2009. A Torino ogni cento nuovi iscritti nelle liste di mobilità 37 sono stranieri. Ma sono fuori dalla social card. Fuori come i giovani con lavoro instabile e senza figli con meno di tre anni. Perché a parte i requisiti di reddito (tra questi non superare i 6.300 euro annui circa o gli 8.300 se pensionato e tanti altri vincoli) per la social card si deve essere o over 65 oppure under 3. L´Italia, appunto, non è un Paese per giovani. I quali, però, sono sempre più poveri: gli under 34 erano il 4,6 per cento del totale, oggi sono saliti al 4,8 per cento; e la classe di età compresa tra i 35 e i 44 anni è passata dal 5 al 5,6 per cento. È una metamorfosi sociale, accelerata dalla recessione, che il governo sembra non aver visto. «Hanno pensato solo a una ristretta tipologia di famiglia, a una parte dei pensionati, ma non ai giovani. Per loro i giovani non sono poveri», sostiene Stefania Trombetti, responsabile del Sistema servizi della Cgil. Nemmeno la Cisl, questa volta, è d´accordo con il governo. Pietro Cerrito, segretario confederale: «La reintroduzione della social card è una misura sbagliata, perché ha la pretesa di intervenire a favore dei pensionati poveri. Ma dietro c´è invece l´idea culturale e politica secondo al quale bisogna combattere solo la povertà assoluta, mentre si diffonde e cresce l´impoverimento di chi riceve pensioni medio-basse».

LE LOBBY
E forse c´è anche questo dietro l´emendamento voluto dal titolare del Lavoro, Maurizio Sacconi, e presentato dal senatore del Pdl Maurizio Castro, strettissimo collaboratore del ministro, e che negli anni Novanta guidò le relazioni industriali alla Electrolux proponendo forme ardite di partecipazione sindacale introducendo per primo anche il job on call, il lavoro a chiamata. Ma qual è l´obiettivo della modifica voluta da Sacconi? Quali sono le lobby che si vogliono favorire? Di certo c´è un elemento ideologico. C´è la versione italiana della Big society che teorizza il premier conservatore inglese David Cameron. C´è l´idea di un welfare state leggero post-fordista e molto privato che, in fondo, echeggia le parole d´ordine dell´annuale meeting riminese di “Comunione e Liberazione” con il suo esercito di volontari, la sua rete, e gli intrecci con il business cooperativo delle mense e dei servizi alle persone. Gli individui anziché lo Stato, che hanno sedotto pubblicamente Giulio Tremonti come Maurizio Sacconi, un tempo socialisti ora ciellini d´adozione. «È la sussidiarietà classica: più società, meno Stato», spiega Castro. Per questo si vuole affidare anche agli enti «caritativi» un pezzo della gestione della social card. Saranno loro, una volta selezionati (entro trenta giorni dall´approvazione arriverà un decreto del ministero del Lavoro), a individuare i soggetti davvero bisognosi. Un esame empirico, sul territorio. Senza i soggetti pubblici. Ma chi controllerà? Quale sarà, se ci sarà, il ruolo dei Comuni? Ci sono 50 milioni aggiuntivi a disposizione (per la social card ce ne sono ancora 550 da spendere mentre ne sono stati spesi 500), per una prima sperimentazione in una decina di città con più di 250 mila abitanti. «Perché – dice ancora Castro – il “centro” ha per sua natura un approccio giuridico-burocratico. Il “centro” non vede i poveri, i suburbi, i quartieri degradati». Ecco: l´implicita ammissione di un semi-fallimento. Perché, appunto, i clochard la social card, con la sua carica di 40 euro mensili più 20 per chi utilizza il gas naturale, non l´hanno mai vista, né chiesta. La vedranno attraverso i privati? E i giovani precari saranno inclusi? O resteranno invisibili?

IL MODELLO
Ma cosa pensano i potenziali «enti caritativi»? La Caritas per esempio. Attacca il vicedirettore Francesco Marsico: «La Caritas non ha mai chiesto una modifica di questo tipo». Non l´ha mai chiesto perché non la condivide. Marsico: «Il problema della social card è che esclude una larga fetta di famiglie povere e la sperimentazione decisa dal governo non risolve questa criticità di fondo. Anzi, ne aggiunge altre. Perché pone il problema del rispetto del principio costituzionale di equità sia per ciò che riguarda i soggetti destinatari, sia sul versante dei soggetti erogatori». Non è questo che vuole la Caritas.
Il modello social card, comunque, si sta diffondendo lungo la Penisola. Ci sono Regioni, Province e Comuni che hanno deciso di integrare la carta. L´ha deciso il Friuli (120 euro a bimestre), la Provincia di Latina (40 euro), i Comuni di Alessandria (80 euro), di Susegana (40 euro), di Cassola (80 euro), di Grado (80 euro ma solo per i bimbi sotto i tre anni). È una strada.
Cristiano Gori, docente di politiche sociali alla Cattolica di Milano, coordinatore della proposte delle Acli per una diversa social card, ha un approccio pragmatico. Ricorda, per esempio, che aver aumentato il reddito delle famiglie che hanno ottenuto la carta di circa l´8 per cento non è poca cosa. Ma non basta. Perché la social card tremontiana-sacconiana non può dare di più. Neanche nella versione privatista. «Serve uno strumento universalistico – dice Gori – . Una misura base per tutta la popolazione in condizioni di povertà assoluta. Non è più una questione di risorse perché rimangono quasi 500 milioni». Propone una carta prepagata per tutte le famiglie povere, che sia estesa agli stranieri, che preveda 129 euro al mese destinati a salire nelle zone dove il costo della vita è superiore, che dia accesso anche ai servizi alla persona e non solo agli acquisti alimentari, che, infine, attribuisca un ruolo ai Comuni. Un´altra strada alla social card. E per tutti i poveri.

La Repubblica 18.02.11