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«All'Italia servono 50mila infermieri», di Paola Simonetti

Sono sempre più necessari a un paese che invecchia, ma i neolaureati e il ricorso agli stranieri non colmano la lacuna. La metà degli studenti abbandona i corsi. Paradossalmente, anche su questa categoria si affaccia lo spettro della disoccupazione

Sono il pilastro dell’assistenza sanitaria alla persona, in un paese dove l’incidenza di anziani genera una delle più grandi urgenze sociali a lungo termine mai viste in Europa. Eppure il reclutamento degli infermieri in Italia arranca, funestato da problemi di varia natura. All’appello dei bisogni delle strutture ospedaliere, del Centro-Nord soprattutto, ne mancano ad oggi circa 50mila, stando alle ultime stime della Federazione dei Collegi degli infermieri (Ipasvi). Alla fine del 2007 nel nostro paese c’erano circa 5,4 infermieri ogni mille abitanti, contro i 9,8 della Germania, i 12,8 dell’Olanda o, addirittura, i 14,8 dell’Irlanda: la quota era di circa il 27% inferiore alla media dei Paesi Ocse.

Il nodo pensionamenti
All’emorragia di infermieri provocata dai pensionamenti non riesce a mettere un argine il flusso dei neolaureati di settore proveniente dalle 40 università attive da oltre 10 anni con corsi a numero chiuso per l’accesso alla professione (l’unico percorso formativo ad oggi possibile ndr). Il progressivo aumento delle immatricolazioni, cresciute nel 2010 del 316%, non basta quindi a tamponare il numero degli infermieri in “uscita”: circa 8mila quelli sfornati ogni anno dagli atenei, contro i 13mila che vanno in pensione. Secondo i calcoli dell’Ipasvi, si registra un fabbisogno annuale di almeno 18.000 nuove immatricolazioni. A poco è servito anche il massiccio ricorso a professionisti stranieri, che oggi sono circa il 28% del totale.

La paralisi del contratto nazionale
A scoraggiare i professionisti maturi a rimandare il pensionamento non c’è solo l’usura di una professione complessa e pesante, ma anche lo stallo del contratto nazionale: “Le retribuzioni saranno ferme per i prossimi tre anni, che alla fine diventeranno almeno 4 o 5 – spiega Gianluca Mezzadri, coordinatore delle professioni sanitarie nella FP Cgil -. L’ultimo accordo separato firmato da Cisl e Uil assieme ad altri sindacati blocca anche la contrattazione integrativa, cristallizza gli stipendi con un’evidente perdita dovuta all’inflazione, che non viene più recuperata”.
Tuttavia, nonostante la categoria la ritenga ancora inadeguata, la retribuzione media di questi professionisti rende il settore appetibile, oggi, per un giovane laureato, che punti anche ad avanzamenti di carriera: “Gli stipendi variano a seconda delle condizioni di lavoro – spiega sempre Mezzadri- : si può andare dai 1200/1300 euro all’inizio di carriera, fino a quasi 2000 euro al massimo della carriera. Poi ci sono ruoli di coordinamento e posizioni organizzative, dove si arriva anche a 2450 euro”.

L’abbandono “scolastico”
Ma a remare contro un adeguato reclutamento professionale c’è anche una errata, quanto ingannevole, visione che sbarra spesso la strada agli studenti universitari: “Ci portiamo dietro, storicamente, una sottovalutazione di questo mestiere – spiega la presidente Ipasvi, Annalisa Silvestro-: chi approda al corso di laurea spesso lo fa con la convinzione che la professione sia una mera attività assistenziale, ignorandone invece gli aspetti più interessanti e appassionanti, benché impegnativi, legati alla preparazione scientifica. Si sottovaluta l’impegno importante che ne deriva sul versante dello studio, ma anche l’alto profilo e il cammino professionalizzante che produce. Da qui scaturisce il pesante abbandono ‘scolastico’ di settore, che consideriamo una sconfitta”.
Se infatti l’appeal della professione si è innalzato grazie alla facile collocabilità sul mercato del lavoro, “coloro che poi finiscono il percorso universitario sono sempre pochi, e in ogni caso insufficienti a colmare il fabbisogno – aggiunge Andrea Bottega, segretario Nursind, uno dei sindacati di categoria-: quelli che lasciano a metà sono quasi il 50%”.

Lo spettro della disoccupazione
Eppure alle radici della voragine incolmabile degli infermieri italiani c’è un’altra causa contingente: “Di queste figure c’è un grande bisogno, è un problema storico e di infermieri ne vengono formati meno di quanto ci sia necessità, non c’è dubbio. Ma c’è il paradosso che in alcune zone d’Italia molti di loro sono a spasso – spiega Mezzadri. Il fenomeno della disoccupazione di settore comincia ad affacciarsi: i blocchi di finanziaria hanno condotto le aziende ospedaliere a tagliare su reparti e personale. Non si assume se non in sostituzione. Non va meglio nel settore privato, spesso legato a doppio filo a quello pubblico con le convenzioni nel supporto ai servizi di assistenza”.
Una della strade possibili ulteriori di sbocco professionale per gli infermieri potrebbe aprirsi sul fronte della docenza universitaria, ma resta per ora solo parzialmente percorribile. La formazione superiore, secondo quanto segnalato all’unanimità da tutti gli enti di settore, è oggi quasi esclusivamente “medico centrica”, un fattore che peraltro snatura, a livello pratico e culturale, la reale essenza della professione. “E’ già tanto se arriviamo a 50 fra professori e ricercatori infermieri nell’università –
dichiara la Silvestro -. Non abbiamo nessun ordinario di infermieristica, un paradosso considerando che gli immatricolati in infermieristica sono prevalenti
rispetto a tutti gli immatricolati della facoltà di medicina. Occorrerebbe avere il coraggio di mettere in discussione alcuni equilibri all’interno degli atenei”.

A chi fanno paura gli infermieri?
L’evoluzione e l’innalzamento professionale degli infermieri getta scompiglio nelle certezze di una categoria che, proprio con questi professionisti, collabora gomito a gomito: i medici. L’ultima polemica contro gli infermieri, dopo quella già esplosa nel 2009, è quella dell’Ordine dei medici dell’Emilia Romagna, scagliatisi contro alcuni progetti della Regione Emilia Romagna alla Regione Toscana, tanto da far scattare la denuncia in Procura per abuso di professione: “Temono che possano rubar loro il lavoro – spiega sempre Mezzadri – . Oggetto del contendere, un paio di progetti legati alla possibilità, nei pronto soccorsi, di utilizzare gli infermieri per accettazione, riconoscimento dei sintomi e indirizzamento dei pazienti o di metterli in condizione di fare una diagnosi di primo livello, per poi far intervenire il medico nei casi realmente gravi. Un metodo che sveltirebbe di molto le procedure. Ne è invece scaturito un mezzo inferno. Un flebile spiraglio è arrivato però dall’Ordine dei medici della Toscana, che si è detto favorevole. Speriamo sia un seme che possa germogliare: ne trarrebbero un gran beneficio i cittadini”.

da www.rassegna.it