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"Lavoro, la malattia italiana", di Carlo Dell'Aringa e Tiziano Treu

Il peggioramento delle condizioni dei giovani nel mercato del lavoro è stato, negli anni della crisi, molto forte in Italia, e anche un po’ più forte di quanto successo nella media dei paesi europei. Peggio di noi ha fatto certamente la Spagna, meglio di noi ha fatto decisamente la Francia che ha perso molto poco in termini di occupazione; anche la Gran Bretagna ha sperimentato un peggioramento dei suoi indicatori minore del nostro.
Il fenomeno dei Neet (Neither in employment, nor in education and training), che ci caratterizza rispetto agli altri paesi, è maggiormente diffuso tra i giovani-adulti che non tra i giovani-giovani. Infatti i giovani nella fascia di età più bassa (15-24) sono prevalentemente impegnati (ancora) nel circuito scolastico mentre i giovani delle età successive, in maggioranza, hanno finito il percorso di studi e si trovano quindi ad affrontare il problema dell’inserimento nel mondo del lavoro. E infatti si osserva che mentre i giovani tra i 15 e i 24 hanno un tasso di Neet del 17%, i giovani con età tra i 25 e i 30 anni hanno un tasso di Neet dieci punti percentuali più elevato.
I dati dell’Istat ci dicono che la maggioranza dei Neet sono inattivi, ma colpisce negativamente la elevata percentuale di giovani disoccupati di lunga durata rispetto a quelli di breve durata. La percentuale dei giovani in condizione di Neet aumenta quindi con l’età: ciò è dovuto non tanto alla percentuale di disoccupati e degli inattivi scoraggiati che, dopo circa i 20 anni, rappresentano una quota costante del complesso dei giovani. Dopo i 20 anni cresce continuamente, con l’età, la quota di inattivi completamente uscita dal mercato del lavoro. Tra i ventenni ci sono circa 30mila giovani che sono in questa condizione, ma tra i trentenni si stima che ve ne siano almeno il doppio. Questa crescita, con l’età, di giovani che si dichiarano ormai distaccati dal mercato del lavoro, impressiona negativamente e ci si chiede se questo fenomeno non sia la conseguenza di lunghi periodi di mancanza di occasioni di lavoro e che alla fine scoraggia e in modo definitivo dal cercare e dal rendersi disponibile per qualsiasi tipo di attività lavorativa.
Se si guarda poi ai cosiddetti «left behind», cioè a quei giovani senza titolo di studio di scuola media superiore e che si trovano nello stato di Neet, si osserva un loro consistente aumento in questi anni di crisi. Stando agli ultimi dati, hanno raggiunto l’11% della popolazione giovanile. I left behind sono caratterizzati da un periodo più lungo di non occupazione alle loro spalle, rispetto ai loro coetanei.
Per periodo di non occupazione, l’Istat intende il periodo che intercorre tra la fine della precedente esperienza lavorativa e la situazione al momento dell’intervista (condizione di Neet). Per questo gruppo di giovani particolarmente svantaggiati, il periodo di non occupazione cresce con l’età: più i giovani invecchiano e maggiore è il tempo che trascorrono al di fuori dello stato di occupazione. A vent’anni è di circa un anno, ma a trent’anni è di oltre tre anni.
Si è detto del ruolo importante che l’istituto dell’apprendistato, soprattutto laddove è particolarmente valorizzato, svolge nel processo di formazione dei giovani e nella successiva fase di transizione ad un pieno stato occupazionale. Anche nel nostro paese l’istituto dell’apprendistato è particolarmente diffuso, anche se non è mai stato strutturato e valorizzato come nei paesi di lingua e tradizione tedesca. L’applicazione dell’istituto è “a macchia di leopardo” e dipende dalle soluzioni trovate, a livello delle singole regioni e dei singoli settori, al problema della regolazione del rapporto di lavoro. Non sempre infatti le singole aziende di spongono di un quadro normativo chiaro e trasparente e questo è il motivo per cui di questo importante istituto se ne fa un uso inferiore a quello che sarebbe possibile e auspicabile. A queste difficoltà si sono aggiunte le difficoltà della crisi che, anche nei paesi con una forte tradizione in questo settore, hanno colpito i giovani occupati in percorsi di apprendistato. Una delle criticità maggiori riguarda la possibilità che questi percorsi vengano interrotti, a causa della riduzione della domanda di lavoro e dei conseguenti esuberi. Questo è un problema che molti paesi stanno affrontando, anche con misure dirette ad evitare che questi giovani interrompano bruscamente un percorso di formazione-lavoro: per il loro futuro costituirebbe un passo falso che dovrebbe essere evitato.
L’Italia è il paese con una percentuale di giovani che mescolano in qualche modo lo studio con esperienze di lavoro, che è di poco superiore al 5%. Solo tra i giovani greci la percentuale è ancora minore. Nonostante i piani di alternanza scuola-lavoro che abbiamo introdotto e sperimentato in passato, i risultati, su questo versante, devono essere stati veramente modesti, se la situazione è quella riportata nelle classifiche dell’Ocse. Quindi ci collochiamo decisamente nel gruppo dei paesi con la pratica del «study first, then work», con la differenza, forse, che non disponiamo di un apparato scolastico così solido e valido come quello di altri paesi che condividono con noi lo stesso modello. Il risultato è che la transizione dei nostri giovani dalla scuola al lavoro viene ad essere penalizzata non solo da una qualità della formazione che potrebbe essere decisamente migliore e meglio orientata, ma anche dalla quasi totale mancanza di esperienze lavorative durante il percorso scolastico.
Vi è un gruppo di paesi che si contraddistingue per una modalità particolare di combinare la attività di studio con una esperienza di lavoro. Si tratta dei paesi europei dove è in vigore l’istituto dell’apprendistato “alla tedesca”. In Germania, Austria e Svizzera, ben un terzo dei giovani che studiano fa, al contempo, una esperienza di lavoro. L’apprendistato tedesco è un sistema di formazione basato essenzialmente su una combinazione di studio e di lavoro. E si tratta di una combinazione che può accompagnare i giovani sino ai livelli più elevati della loro formazione. In genere questo tipo di apprendistato non compromette la durata degli studi, che rimane tutto sommato contenuta in limiti ragionevoli. Cioè i giovani apprendisti non finiscono gli studi con rilevanti ritardi rispetto ai loro colleghi che seguono percorsi scolastici tradizionali. Hanno comunque il vantaggio di avvicinarsi al mondo del lavoro, una volta finito il percorso di formazione-lavoro, con maggiori possibilità di trovare velocemente stabili e buoni posti di lavoro.
Si è visto come l’apprendistato sia considerato a livello internazionale l’istituto che meglio facilita la transizione dalla scuola al lavoro. Anche se non è necessario avere da noi un apprendistato “alla tedesca” si deve aumentare il ricorso a questo istituto che è sempre stato al disotto delle sue potenzialità ed è ulteriormente calato nella crisi; mentre viceversa deve diventare canale di accesso preferenziale al lavoro, un vero e proprio contratto di primo lavoro, a tempo indeterminato.
Un presupposto per la diffusione dell’apprendistato è rimuovere l’incertezza circa la ripartizione delle competenze in materia fra stato, regioni e contrattazione collettiva che ha ostacolato l’uso dell’apprendistato. Il recente Testo unico prevede un tavolo congiunto per il raccordo fra le varie competenze che definisca su base consensuale standard professionali e formativi comuni, in particolare che armonizzi i profili professionali previsti dai contratti collettivi.
Dall’intesa su questi punti che garantisca regole e procedure condivise dipende in larga misura l’efficacia e il rilancio dell’istituto. Oltre alla diffusione, è importante la qualità dell’apprendistato, che dipende dai suoi contenuti formativi, sia quelli dipendenti dall’impresa che devono essere a tal fine qualificati, sia quelli provenienti dall’offerta formativa delle istituzioni. I rapporti Isfol confermano che solo una minoranza di apprendisti (20%) usufruisce di un percorso di formazione offerto dalle regioni con rilevanti differenze fra le varie parti del paese. Né tale carenza può essere colmata dalla formazione interna alle imprese che è diseguale e poco controllata. Ciò che conta è che qualunque sia il soggetto erogante, i contenuti formativi siano raccordati alle esigenze dell’azienda e al curriculum dell’apprendista.
Una diffusione dell’apprendistato per l’alta formazione tramite accordi fra università, regioni e parti sociali può essere utile per favorire l’occupazione dei giovani laureati.

estratto dell’introduzione al volume “Giovani senza futuro?” (Il Mulino – Arel) presentato ieri
Carlo Dell’Aringa e Tiziano Treu

da Europa Quotidiano 23.02.12