attualità, politica italiana

"Il partito unico dei populisti", di Michele Prospero

Un agguerrito partito unico dei populisti attacca con determinazione militare il Colle con l’obiettivo esplicito di condizionare l’evoluzione della crisi e indirizzarla verso esiti catastrofici. Tutte le forze che sono uscite malconce dal declino della seconda Repubblica sono ora coalizzate alla rinfusa. Tra loro si abbandonano a scambi di favore per aggrapparsi all’ancora rimasta per non perire: agevolare la deriva dell’ordinamento repubblicano per riemergere dalla melma soffocante. Gli orfani dispersi di tutti i populismi raccolgono munizioni irregolari da destinare ad un furioso assalto a Napolitano. Il Quirinale viene puntato non già perché debole e ricattabile ma perché forte e autorevole. I populisti unificati sanno bene che l’antipolitica per sopravvivere ha bisogno della fulminea rottura delle mediazioni costituzionali. Solo nel caos di un sistema rimasto senza più custodi, e in cui si sono spezzate le funzioni istituzionali e infrante le regole, può tornare a danzare il populismo. Per questo la crisi costituzionale è invocata come una occasione propizia per ottenere una amnistia etico-politica che cancelli le colpe che la storia ha nitidamente scolpito.
Con il capo dello Stato viene infilzato un argine sicuro contro il declino, una figura che incarna i valori della continuità istituzionale. Nel suo difficile settennato, Napolitano ha dovuto gestire la dissoluzione dell’ordine bipolare. Dapprima si imbatté con l’implosione dell’Unione che, per un insano spirito di suicidio, si frantumò dopo pochi mesi. Ha poi dovuto apprendere il mestiere amaro della convivenza con Berlusconi, vincitore per la terza volta e fare i conti con lo sgretolamento dell’ampia maggioranza parlamentare del Cavaliere giunto proprio nel mezzo di una drammatica crisi economica, finanziaria e di credibilità internazionale. I tempi difficili che Napolitano ha gestito trascendono le semplici usure delle formule di governo e richiamano i tratti di una lacerante crisi di sistema, di soggetti politici, di tenuta sociale. Dopo il novembre nero del 2011, si è aperta una voragine che il Paese ha colmato confidando nell’azione di un presidente non di routine ma di innovazione, nel solco però delle regole parlamentari. Il ritrovato del governo tecnico (come ogni scelta istituzionale) può essere criticato politicamente ma non può certo essere contestato sotto il profilo della legittimità perché nasceva da circostanze che non consentivano altre soluzioni. Nell’emergenza conclamata, Berlusconi si era dimesso ma senza però aver ricevuto un formale voto di sfiducia. A lui quindi sarebbe toccato condurre il Paese al voto. Una sciagura. Ogni altra via era preclusa perché resisteva una ampia maggioranza di destra, almeno al Senato. Il ricorso al voto anticipato era inagibile perché l’ipotesi non aveva un sostegno maggioritario in Parlamento.
Il partito unico dei populisti si scaglia contro Napolitano proprio perché egli ha gestito con efficacia la crisi di sistema difendendo le prerogative costituzionali e gli spazi parlamentari. Il Quirinale ha inoltre saputo interpretare ansie e speranze conquistando un consenso popolare largo ai destini di una Repubblica fragile che riscopre la sua ciclica vulnerabilità dinanzi alle fasi critiche che richiedono governi di grande coalizione. Aristocratico non meno di Einaudi ma popolare non meno di Pertini, il presidente ha garantito la tenuta dell’ordinamento sottoposto a tensioni inaudite.
Nella guerra contro il Colle si distinguono in maniera nitida un fronte della lealtà costituzionale (Pd, Udc e Terzo polo, settori moderati, Sel, ma anche un giornale di destra politica come “Il Tempo” di Mario Sechi) e una armata di sbandati (Di Pietro, Grillo, Lega, Pasdaran berlusconiani) sorretta dal fuoco mediatico della triplice alleanza (Il Fatto, Il Giornale, Libero). La contesa è di quelle ardue, l’esito dello scontro appare nient’affatto scontato. Per fortuna (del Paese) il sostegno che la figura di Napolitano trova nell’opinione pubblica è assai più ampio di quello che gli assicura un Parlamento in cui la destra conserva la maggioranza. La vera posta in gioco della sfida è sin troppo trasparente: un serio rinnovamento della politica, nella linea della preservazione della costituzione repubblicana, oppure uno spirito di avventura che ricerca la caduta delle istituzioni per determinare una amnesia storica che cancelli le orme dei responsabili della decadenza.

L’Unità 01.09.12