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"Io donna in gravidanza grazie alla legge 40", di Fabiana Pierbattista

Chi vi scrive è incinta di 15 settimana, una gravidanza avuto con l’accesso alla legge 40, o meglio, con quanto di umano di questa legge è stato ottenuto grazie alle sentenze dei giudici dei tribunali e della Corte Costituzionale. È grazie infatti ad una pronuncia della Suprema Corte, nello specifico quella che cancella l’obbligo d’impianto di tre embrioni, che mi sono sentita di poter accedere alla tecnica di fecondazione assistita e sempre grazie a quella pronuncia ho potuto opporre un netto rifiuto alla richiesta di impianto di tre embrioni, sulla scia di argomentazioni puramente statistiche, legate all’età della sottoscritta e alla risposta di un corpo, che invece, come molte donne sanno, ha leggi ben diverse da quelle meramente scientifiche. Il mio corpo era più che pronto per una gravidanza, non per due o tre, per una e una sola, perché non c’è alcun automatismo tra il volere un figlio e portarsene a casa tre, la scelta di una maternità consapevole passa anche per questa libertà di scelta. Ora vivo sospesa, in attesa dell’esito di un’altra sentenza, quella dell’amniocentesi, infatti, pur avendo 41 anni, non essendo né io né il mio compagno portatori di malattie genetiche, non abbiamo potuto accedere ad una diagnosi preimpianto, diversamente avremmo potuto fare in Belgio, dove lavora il mio compagno come anche in quasi tutto il resto d’Europa, ma le donne normali, che fanno lavori normali, ammesso ce l’abbiano, trovano alcune difficoltà logistiche di non poco conto a lasciare lavoro e figli per trasferire armi e bagagli altrove per almeno un mese, nella più rosea delle prospettive. Così rimango sospesa, con il mio bambino o bambina che già pensa di farmi le bolle nella pancia, in attesa di sapere se in quel mare di bolle posso immergere tutta me stessa, pancia, testa, cuore, due battiti in un solo respiro. La sentenza della Corte di Strasburgo, fa giustizia di tutto questo scempio, sana la palese contraddizione di una legge prigioniera di un furore ideologico, che scelse di non consentire la diagnosi preimpianto, vista la libertà riconosciuta da un’altra legge la 194, quella sì frutto di civiltà giuridica, di interrompere la gravidanza, come se per il corpo e il cuore di una donna sia la stessa cosa rinunciare all’impianto di un embrione malato o interrompere una gravidanza in uno stadio avanzato. Questo perché oggetto di tanto furore ideologico è ancora una volta il corpo della donna, o meglio quel potere antico di generare la vita, unico che non consente l’accesso ai maschi, che nel frattempo hanno ben pensato di depredare tutte le altre forme di potere. Un legislatore fintamente neutro, perché partecipato all’80% da uomini, ha pensato di scrivere quest’orrrore giuridico, condannando le donne con opportunità maggiori a forme di turismo procreativo e quelle con meno opportunità a sentirsi dire che il legittimo desiderio di avere un figlio sano si chiama eugenetica, parola quanto mai fuori luogo e contesto.
Eppure questa palese contraddizione, ripetutamente sottolineata da chi si opponeva all’approvazione di questa legge, non può essere semplicemente sfuggita, il sospetto dapprima strisciante e poi sempre più concreto leggendo le dichiarazioni di questi giorni, è che di questa contraddizione fossero ben consapevoli e che l’obiettivo ultimo di questo furore sia un’altra legge la 194 appunto, che ha garantito a milioni di donne l’accesso ad una maternità consapevole. Non è mancato chi, infatti, proprio in questi giorni ha pensato bene di sostenere che per sanare la contraddizione sottolineata dalla Corte europea, basti semplicemente porre mano alla 194.

Al Governo Monti, che pensa di fare ricorso contro questa sentenza mi pare opportuno suggerire di astenersi, anzitutto perché al momento si assiste ad una macroscopica violazione dell’art. 3 della Costituzione tra coppie sterili e portatrici di malattie genetiche, che grazie alle sentenze possono accedere alla diagnosi preimpianto e coppie fertili portatrici delle stesse malattie che alla diagnosi non possono accedere. Ma al di là delle argomentazioni di rango costituzionale, di esclusiva spettanza dei giudici della Suprema Corte, le ragioni di un’astensione da qualsiasi forma di ricorso a tutela dei brandelli di questa legge, risiedono in motivi squisitamente di opportunità politica. Alle forze politiche, invece, nuovamente confermate dal voto, il compito di assumersi la responsabilità di riscrivere questa legge, avendo ben chiaro che la crisi della democrazia rappresentativa è passata anche di qui, attraverso l’approvazione di disposizioni palesemente inique e persecutorie.

Vorrei ricordare che il 13 febbraio del 2011, le donne italiane sono scese in piazza, con la più grande manifestazione che il nostro Paese ricordi, per dire che la loro dignità era il limite invalicabile oltre il quale non era più consentito passare, salvando così tutti, cittadine, cittadini e istituzioni dalla rappresentazione oscena e senza vergogna che in quei giorni l’Italia intera subiva. Ebbene, si sappia che le donne italiane tutte, senza distinzione alcuna, con culture politiche diverse, laiche e cattoliche, tutte, se necessario, scenderanno nuovamente in piazza a difesa di un presidio di civiltà giuridica e tutte in una sola voce ripeteremo: non si passa.

L’Unità 04.09.12