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"Patrimoniale: quella tassa che divide la politica italiana", di Massimo Riva

«Il miracolo che l’imposta patrimoniale è chiamata a compiere in Italia è davvero grande: niente meno che mutare a fondo la psicologia del contribuente». Queste parole scritte dal campione liberale Luigi Einaudi nel 1946 restano tuttora una prima e indispensabile chiave di lettura per cercare di spiegarsi il furore politico e la strumentalità demagogica che agitano oggi la campagna elettorale attorno al tema di un prelievo sulla ricchezza accumulata. Da economista acuto lo studioso, che sarebbe diventato governatore di Bankitalia e poi capo dello Stato, soggiungeva che con questa riforma fiscale si doveva porre fine della lunga era di incrementi continui delle imposte ordinarie sul reddito.
C’era, insomma, nel disegno einaudiano una duplice razionalità. La più evidente di stampo economico: prelevando più dai patrimoni che dai redditi, lo Stato avrebbe creato le condizioni migliori per un aumento della domanda ovvero di quei consumi che restano la fonte principale di stimolo alla crescita di investimenti
e occupazione.
Non meno importante, però, era anche la matrice etica della sua proposta che sottintendeva la necessità di riaggiustare nel senso di una maggiore equità sociale il carico fiscale sui contribuenti.
Va ricordato che, da autentico politico liberale, Luigi Einaudi era ossessionato dal principio della “eguaglianza dei punti di partenza” ritenendo che compito fondamentale dello Stato dovesse essere quello di offrire piena parità di condizioni nella competizione sociale. Illuminanti al riguardo le sue pagine a favore di un’imposta sulle successioni tale da assicurare il riassorbimento dei privilegi ereditari nel volgere di poche generazioni.
A quasi settant’anni di distanza le condizioni dello Stato fiscale tendono ad avvicinarsi – soprattutto per il peso abnorme del debito pubblico – a quelle dell’immediato dopoguerra in cui maturò la provocazione einaudiana. Ma non può certo dirsi che il dibattito politico sull’imposta patrimoniale abbia fatto grandi progressi. Nel frattempo c’è stato anche qualche esperimento di prelievo sulla ricchezza accumulata e però in forma straordinaria di imposizione limitata e abborracciata sotto la pressione dell’emergenza occasionale. Lo ha fatto il governo di Giuliano Amato quando nel settembre nero del 1992 ha dovuto fare cassa in tutta
fretta mettendo le mani sui conti correnti degli italiani per scongiurare il “default” dello Stato. Ci ha riprovato ora, in condizioni d’urgenza analoghe, il governo di Mario Monti con la nuova Imu, che si prospetta come un embrione di imposta patrimoniale ma limitata alla ricchezza immobiliare e per giunta viziata dalla base d’appoggio su un impianto catastale che per le sue scandalose scorrettezze fa rimpiangere i solerti e occhiuti funzionari di Maria Teresa.
Oggi tanto il programma del centro sinistra quanto la cosiddetta Agenda Monti prevedono, sia pur genericamente, una forma di imposizione sul patrimonio. Ma la campagna elettorale in corso, anche attraverso le esagerazioni strumentali della demagogia, offre elementi importanti per capire le vere difficoltà che si oppongono nel nostro paese a una svolta in senso patrimoniale del regime fiscale. Quando il fronte berlusconiano fa una vera e propria chiamata alle armi dei ceti più abbienti contro ogni prelievo sui risparmi delle famiglie – come con qualche eccesso di disinvoltura viene classificata dalla destra la ricchezza accumulata al riparo dal fisco – non si limita a rendere chiaro quanto si sia ancora lontani dal miracolo di una mutazione della psicologia del contribuente vagheggiato da Einaudi. Questa posizione riflette qualcosa di più profondo e tangibile di un’ostilità soltanto psicologica all’introduzione di un’imposta patrimoniale. Essa è lo specchio di un conflitto d’interessi economici concretissimi che mette le sue radici nella sempre più distorta distribuzione delle ricchezze che si sta consolidando da anni nella società italiana. C’è, insomma, un’altra chiave di lettura dello scontro politico in materia che ingloba, aggiorna e sporca di materialità storica l’astratta purezza ideologica della visione liberale einaudiana. Le statistiche più recenti indicano che in Italia il dieci per cento della popolazione possiede oltre il 45 per cento delle fortune censibili, mentre il 50 per cento degli italiani – ovviamente le famiglie meno abbienti – si deve accontentare di controllare non più del 10 per cento delle ricchezze complessive. Cosicché il rimanente 40 per cento della popolazione – che per comodità può definirsi ceto medio – dispone del restante 45 per cento di valori patrimoniali.
Questa mappa statistica, che la crisi economica sta facendo peggiorare di giorno in giorno in termini di crescente disuguaglianza, induce a reintrodurre nel dibattito politico-economico nozioni e concetti troppo sbrigativamente accantonati.
In particolare, guardando a quella metà di italiani che possiede il dieci per cento delle fortune nazionali, torna di sicura attualità per molti di costoro il termine “proletario” che definisce la misera condizione di chi dispone come ricchezza soltanto dei propri figli. E di pari passo con il ritorno del proletariato e lo scivolamento di parte del ceto medio verso questa posizione marginale si riaffaccia un altro motore della storia invano esorcizzato negli ultimi decenni. Che è, come si direbbe in America, la lotta di classe, bellezza!
Tante sono le forme che può assumere un’imposta patrimoniale. Essa può essere reale, personale, immobiliare e/o mobiliare, permanente o straordinaria. Ma aldilà della sua migliore veste operativa, oggi in Italia deve avere come obiettivo principale una redistribuzione del carico fiscale che ponga rimedio a una distribuzione della ricchezza così socialmente iniqua da risultare nefasta – vedi il crollo dei consumi – per la crescita economica.

La Repubblica 10.01.13