attualità, politica italiana

"La palude è peggio del voto", di Federico Geremicca

C’è qualcosa di peggio delle elezioni anticipate nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia e con l’economia in una situazione di profondo rosso? Forse sì, qualcosa di peggio c’è. E lo ha testimoniato – in fondo – perfino la giornata di ieri, una giornata «politicamente tranquilla» che il presidente del Consiglio ha però impegnato quasi interamente in interminabili riunioni col suo più sperimentato gabinetto di crisi: il ministro di Grazia e Giustizia e i suoi avvocati Ghedini e Longo (ai quali si è poi aggiunto a sorpresa uno dei legali della prima ora del premier, l’onorevole Gaetano Pecorella: a testimonianza, forse, dell’ora grave).

Il peggio, rispetto a elezioni anticipate, è la stagnazione, la palude, un governo inerte che annaspa e lentamente sprofonda nelle sabbie mobili. E’ un rischio che – da Emma Marcegaglia alle opposizioni più responsabili, fino a ogni statistica sullo stato del Paese – hanno segnalato in molti. Ed è un pericolo che, a onor del vero, lo stesso Berlusconi ha denunciato fino a non troppo tempo fa: «O abbiamo i numeri per governare e fare le riforme, oppure è meglio andare al voto».

Con la nascita del gruppo dei cosiddetti «responsabili», ora l’esecutivo i numeri li ha: ma non si sono osservate svolte, a riprova del fatto che in politica i numeri sono certo necessari, ma non sempre sufficienti. Un paio di accelerazioni, in verità, nelle ultime 24 ore ci sono state: ma non riguardano l’azione di governo sul fronte delle emergenze da affrontare e sono accelerazioni – entrambe – che non paiono promettere nulla di buono. La prima ha riguardato il cosiddetto «processo breve», rimesso in calendario e all’ordine del giorno in tutta fretta per la prossima settimana; la seconda ha per obiettivo un riequilibrio dei rapporti numerici tra maggioranza e opposizioni in molte commissioni parlamentari: a cominciare, naturalmente, dalla Bicamerale che ha in esame i decreti attuativi del federalismo.

Si dice che le due decisioni siano il frutto di un accordo – ma più correttamente sarebbe meglio dire di un baratto – tra il presidente del Consiglio e l’ultimo degli alleati rimastigli, Umberto Bossi: a te quello che è necessario per accelerare il varo del federalismo, a me quel che occorre per fronteggiare l’offensiva giudiziaria (vecchia e nuova) di cui sono oggetto. Si tratta, in tutta evidenza, di due pessime notizie: la prima, infatti, riporta al centro del dibattito politico (e dei lavori parlamentari) una iniziativa legislativa che, oltre a non esser avvertita come urgente e di interesse generale nella situazione in cui si trova il Paese, tornerà a surriscaldare il clima politico oltre ogni misura e con le conseguenze immaginabili; la seconda, invece – il riequilibrio dei rapporti di forza, a cominciare dalla Bicamerale per il federalismo – pare confermare l’idea di voler procedere, anche su questo delicato terreno, a colpi di maggioranza, lasciando intravedere un nuovo muro contro muro dal quale – e i fatti lo hanno già dimostrato – il governo ha poco o nulla da guadagnare.

E’ certo che anche di questo il Presidente della Repubblica avvertirà il leader leghista, atteso oggi al Quirinale per un incontro «chiarificatore» chiesto dallo stesso Bossi. Napolitano ne aveva già parlato qualche giorno fa a Bergamo, culla leghista, ripetendo che scontri all’arma bianca non avrebbero affatto favorito una più rapida approvazione dei provvedimenti tanto attesi da Bossi. Per tutta risposta, dal Quirinale hanno dovuto osservare il muro contro muro nella Bicamerale e il successivo, maldestro tentativo del governo di varare comunque il decreto legislativo, non controfirmato dal Capo dello Stato.

Non sappiamo se Napolitano riuscirà a persuadere Bossi dell’insensatezza di un agire «muscolare» non sostenuto – per di più – dagli ampi consensi necessari. Sappiamo invece – per cronaca più o meno recente – quali saranno le conseguenze del combinato disposto delle due scelte sulle quali il governo pare intenzionato a tirar dritto: clima d’inferno nella città della politica (e nel Paese), con conseguente paralisi di ogni altra attività che non siano, appunto, il processo breve e la composizione della Bicamerale. Il risultato? Un’altra fase di polemiche al vetriolo e di blocco dei lavori parlamentari, con conseguente stagnazione. Che davvero, al punto in cui è il Paese, rischia di esser peggio delle pur dannose – e da tutti temute – elezioni in primavera.

La Stampa 09.02.11