attualità, economia, politica italiana

"Il resto di niente", di Massimo Giannini

La «scossa all’economia» è una riscossa dell’ipocrisia. Un governo senza forze e senza risorse finge di rianimarsi spacciando al Paese l’ennesima «telepromozione», fatta di inganni conclamati e materiali riciclati. È persino imbarazzante commentare i «provvedimenti» del Consiglio dei ministri. È imbarazzante commentare quei provvedimenti per l´avvilente inconsistenza della quale sono caratterizzati e la stupefacente impudenza con la quale sono stati presentati. Quello per la crescita non è un «pacchetto», com´è stato definito in pompa magna dagli «sponsor» che l´hanno illustrato in conferenza stampa a Palazzo Chigi. È un vero e proprio «pacco», come purtroppo si incaricheranno di dimostrare i duri fatti dei prossimi mesi. Non è una «riforma storica», come si è affrettato a giudicarla un ministro Sacconi sempre troppo incline a scomodare le grandi categorie del pensiero, di fronte ai piccoli imbrogli quotidiani di una maggioranza povera di idee ma ricca di ideologie. È piuttosto la «bufala del secolo», come pare l´abbia bollata nelle chiacchiere da corridoio un altro ministro, più propenso a riconoscere il vero e il falso e a non confondere gli obiettivi con i risultati. La «frustata» di cui aveva parlato nei giorni scorsi il presidente del Consiglio non c´è, qualunque onesto sforzo si faccia per cercarla. C´è invece la «stangata», questa volta non nel senso dei sacrifici imposti ai contribuenti, ma in quello degli artifici dati in pasto ai plaudenti.
La «scossa» è impalpabile, innanzitutto per quello che era stato promesso e che invece, clamorosamente e colpevolmente, manca. Manca anche solo l´abbozzo di quell´«acuto fiscale» sollecitato da giorni, soprattutto nell´area «trattativista» sul fronte della giustizia e «sviluppista» sul fronte dell´economia, che tallona il premier in questa fase di drammatica crisi politica e istituzionale. Non parliamo della grande «riforma fiscale» basata su due sole aliquote Irpef, promessa nel 2001, rilanciata all´inizio di questa legislatura e mai attuata da un centrodestra liberale e liberista solo nei libri che scrive. Parliamo invece dell´abbattimento, della rimodulazione o quanto meno della deducibilità dell´Irap sulle imprese, per la quale non ci sono i soldi e sulla quale il governo non può affidarsi ad altro se non all´ennesima delega. E non parliamo dei grandi piani di «stimolo» sul modello degli Stati Uniti e della Germania, varati in questo triennio da Paesi infinitamente più solidi e responsabili del nostro. Parliamo invece del ddl annuale sulla concorrenza, che dovrebbe prevedere tra l´altro la riforma della rete distributiva dei carburanti, che è in ritardo di almeno otto mesi sulla tabella di marcia fissata dalla Legge Sviluppo 2009, e che ieri non è stato nemmeno esaminato dal Consiglio dei ministri (mentre il Pd, opportunamente, ripescava la «lenzuolata» delle liberalizzazioni di Bersani, che dal 2008 il governo forzaleghista ha ridotto a brandelli).
Lo «spot» governativo brilla dunque per questa fragorosa assenza: non c´è traccia di spinta fiscale né di impronta liberale. Cosa resta allora, nella scatola vuota confezionata da Berlusconi e depurata da Tremonti? Restano un raggiro e due truffe. Il raggiro è la riforma dell´articolo 41 della Carta del ‘47. «Tutto è consentito, tranne ciò che è espressamente vietato»: a questa risibile formuletta il centrodestra assegna la virtù taumaturgica di sbloccare l´economia italiana dai lacci e lacciuoli dirigisti della sua «Costituzione sovietica», come l´ha più volte definita il Cavaliere. Il raggiro è evidente, ed è oltre tutto doppio. Primo perché, senza voler indulgere ad alcun conservatorismo costituzionale, è un fatto che in 64 anni di vigenza non una sola causa è stata sollevata davanti alla Consulta da un´azienda italiana, per una limitazione o un pregiudizio arrecato all´attività imprenditoriale dall´articolo 41. Secondo perché, anche a voler essere ottimisti, una legge di revisione costituzionale ai sensi dell´articolo 138 non può vedere materialmente la luce prima di un anno e mezzo, tra quadrupla lettura parlamentare e referendum confermativo. Dunque, di che parliamo quando parliamo di grande riforma che libera gli spiriti animali del capitalismo? Di una norma che non è servita fino ad ora, e che non produce alcun effetto qui ed ora.
Le due truffe sono ancora più evidenti. Una truffa è il Piano Sud. Un «ever green». Da due anni e mezzo annunciato, aggiornato, modificato, integrato, rilanciato. Ma mai attuato. E non si vede quale «scossa» possa dare l´ulteriore rimessa a punto di ieri (con la quale non si spende un euro in più e non si capisce come si possano spendere gli euro già stanziati) né il successivo «viaggio della speranza» fatto in treno dal ministro dell´Economia insieme ai leader di Cisl e Uil (dal quale è stato misteriosamente tagliato fuori l´intero arco delle forze sociali e produttive interessate alla crescita del Mezzogiorno). Un´altra truffa è il Piano Casa. Un «deja vu». Anche questo, già annunciato e presentato tre volte dal 2008. Successivamente destrutturato dagli enti locali. Poi «scarnificato e ridotto a una lisca in due successivi Consigli dei ministri», come dice in camera caritatis un autorevole esponente del governo. E ora rimpolpato del solito nulla, che non passerà al vaglio dei comuni e delle regioni e forse nemmeno del Parlamento. Il resto è puro contorno. Un riordino degli incentivi alle imprese, che tuttavia non dispone nuove risorse e non dà garanzie sull´effettiva velocizzazione delle erogazioni. E la promessa di una stretta sui conflitti di interesse dei consiglieri di banche, società finanziarie e assicurazioni: questa, davvero, paradossale, visto che a ventilarla è un premier-tycoon che incarna allegramente l´archetipo di tutti i conflitti di interesse possibili, immaginabili e intollerabili in qualunque democrazia dell´Occidente.
Al cospetto di tanta improntitudine politica, non soprende la prosopopea del Cavaliere, che parla a sproposito di un insieme di misure che avranno «positivi sviluppi per la crescita dell´economia e del Paese», salvo poi annunciare che l´aumento del Pil 2010 «l´abbiamo valutato all´1,5%» (cioè esattamente com´era previsto prima, a conferma dell´impatto zero dell´ingannevole «pacchetto scossa»). E non stupisce nemmeno l´imbarazzo dello stesso Tremonti, che in conferenza stampa ha parlato poco e forse anche masticato amaro, rinviando tutto al vero «piano crescita di aprile» che lui stesso presenterà alla Ue. Stupisce piuttosto il prudente e persistente «benign neglect» dell´establishment economico. Il presidente di Confindustria Marcegaglia ha «sospeso il giudizio», sia pure parlando di «scarso impatto» delle misure. Le altre associazioni di categoria hanno balbettato. I sindacati, ad eccezione della Cgil, non hanno battuto ciglio. Qui non c´entra la pregiudiziale antiberlusconiana. Qui si tratta di formulare un giudizio sulla crisi italiana. E di mettere in campo una «exit strategy» concreta, efficace e credibile. Questo governo, solo «chiacchiere e distintivo», non ce la può fare.

La Repubblica 10.02.11