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“L’Italia non mi ha voluto negli Usa batto il cancro”, di Eugenio Occorsio

Sono ore febbrili nel laboratorio di Antonio Iavarone alla Columbia University Medical School. Ha fatto il giro del mondo la notizia pubblicata da Nature Genetics che l’équipe guidata dal professore italiano ha realizzato una mappatura genetica completa del tumore al cervello, aprendo la strada alle terapie personalizzate. Un annuncio in grado di esaltare la comunità scientifica internazionale e di suscitare insperate aspettative per il terribile male. «Insieme con il tumore al pancreas, quello al cervello purtroppo è il più incurabile con un’aspettativa di vita media di non più di 15 mesi», spiega Iavarone. «Proprio di questo tumore mancava la mappa genetica. Ora stimiamo che il 15 per cento dei malati potrà curarsi selettivamente con farmaci già esistenti. Ecco la svolta». Ma il restante 85 per cento? «Qui scatta la corsa contro il tempo. Noi alla Columbia siamo ora in grado di realizzare in 24 ore una mappatura completa delle alterazioni genetiche in una cellula tumorale, l’operazione per intenderci che ha richiesto dieci anni di lavoro al team di Craig Venter quando tracciò la mappa del genoma umano. Ora, se le case farmaceutiche collaborano, possiamo creare farmaci di volta in volta capaci di colpire ogni singolo tumore. Il problema non è più organizzativo, perché basandoci su tutti i nostri studi la maggior parte del lavoro è già fatta: è solo finanziario. Ma gli investimenti necessari non sono più proibitivi. Specialmente se pensiamo alla posta in gioco».
Iavarone, nato a Benevento nel 1963, questi studi voleva farli in Italia. Aveva cominciato a portarli avanti al Gemelli di Roma, dov’era oncologo infantile, ma inciampava continuamente in episodi di nepotismo e di clientelismo politico-familistico talmente inaccettabili che alla fine, nel 1999, è dovuto venire qui in America per proseguirli. Dal 2002 è alla Columbia, dove oggi è professore di patologia e neurologia. «Vede, questo non è il Paese della perfezione. Ma resta un Paese in cui le comunità si fanno concorrenza perché vogliono avere il
centro scientifico più prestigioso e più competitivo, non per la squadra di calcio. Un Paese dove si valuta esclusivamente il merito ». Mentre parliamo, si avvia verso una specie di frigorifero, dove la temperatura è costante a 37,1 gradi come il corpo umano. Ne estrae una vaschettina apparentemente piena solo d’acqua. «Permette alle cellule di tenersi in vita». La piazza al microscopio elettronico ed ecco apparire le cellule tumorali. «I tessuti ci arrivano direttamente dalla sala operatoria dove è avvenuta l’estrazione chirurgica di un tumore cerebrale. Qui li analizziamo, li “coltiviamo”, fino ad identificare in queste cellule il nucleo davvero pernicioso,
le molecole staminali del tumore. Le quali sono identiche e si comportano alla stesso modo, tendono cioè a riprodursi freneticamente, delle cellule staminali umane “normali”».
Tutto è identificarle e poi andarle a colpire con farmaci specifici. «Resistono a qualsiasi chemioterapia perchésonoimprevedibili », interviene Anna Lasorella, moglie e collega di Iavarone.«Non rispettano i pathways,
i percorsi predefiniti e ordinati con cui le molecole crescono, ne attivano o ne inibiscono un’altra, si separano».È il motivo per qui non c’è da stare tranquilli dopo un’operazione di tumore. «La chemio può aver debellato il 99,9 per cento delle cellule, ma in quello 0,1 che resta si annidano spesso proprio quelle staminali. Per questo è fondamentale la ricerca che abbiamo annunciato: offre una visibilità completa sul patrimonio genetico di ogni singolo tumore e permette di scoprire tutti i segreti del Dna di ogni singola molecola maligna, fino a colpire proprio le cellule killer». Come dire, anziché sparare “acasaccio” ora si può mirare precisamente sull’obiettivo.
«Alla mappatura stavano lavorando altri due centri di ricerca qui in America, ma noi siamo arrivati primi», riprende con orgoglio Iavarone. Che va alla finestra, e indica un altro palazzone di vetro e cemento, stagliato contro un fondale di casette con le scale esterne di ghisa e i mattoncini anneriti della parte di Harlem che non è stata risanata e somiglia ancora a quella che spaventava gli
yuppie di Wall Street nel Falò delle vanità di
Tom Wolfe. «Quel palazzo è il nostro “incubatore”, in cui decine di piccole aziende delle biotecnologie lavorano sui nostri brevetti, e vengono qui proprio perché c’è la Columbia University. È il meccanismo virtuoso di sviluppo che si è riusciti a realizzare qui e che sogno un giorno per l’Italia ». Non sono tutte rose e fiori, intendiamoci: «Questo laboratorio è stato creato ed è mantenuto grazie ai finanziamenti federali, oltre che alle generose donazioni private. Ma ormai anche qui è tempo di tagli e ristrettezze ai bilanci: per questo è indispensabile la collaborazione delle case farmaceutiche. Noi ci mettiamo tutta la nostra esperienza, e il bagaglio delle nostre conoscenze. Nella consapevolezza che qui si combatte una lotta per la vita».

La Repubblica 07.08.13