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"Il creuscolo del raìs", di Bernardo Valli

Una settimana dopo l´inizio della protesta l´Egitto sembra in bilico tra rivolta e rivoluzione.Le manifestazioni, con epicentro la cairota piazza Tahrir, avvenute ieri in tutte le principali città, hanno condotto a una situazione che può avere due sbocchi in un futuro ravvicinato. Il primo scenario è che il generale Omar Suleiman, appena nominato vice presidente della Repubblica, e nelle ultime ore apparso più volte sui teleschermi per invitare l´opposizione al dialogo, riesca a organizzare l´inevitabile uscita di scena di Hosni Mubarak nel migliore dei modi, e prima che tutto degeneri. Ma Mubarak non sta al gioco. Si impunta. Rifiuta di dare le dimissioni, limitandosi a promettere che in settembre non si ripresenterà. Il vecchio generale lascia aperta una via d´uscita non escludendo la possibilità di accorciare costituzionalmente il mandato presidenziale. In questa incertezza lo scontro rischia di inasprirsi.
Nelle ultime ore tra la gente è prevalsa l´allegria; la sensazione di essere in tanti ha dato sicurezza, l´imponente partecipazione ha dato una forza insperata alla protesta; l´appoggio ufficiale dell´esercito ha rassicurato. Se i tempi si allungassero troppo, se venerdì i manifestanti ritrovassero Mubarak sulla poltrona presidenziale, gli umori potrebbero guastarsi, e mutare le immagini di un paese passato dalla rabbia alla gioia.
L´establishement militare, di cui Mubarak è da trent´anni il massimo esponente, vuole una sua uscita dignitosa. Invece la piazza, nell´euforia del successo, vorrebbe una cacciata senza fanfare, senza saluti militari e sbatter di tacchi: si aspetta una fuga marcata dall´ignominia. Qualcosa di simile a un´esecuzione. È quel che del resto invocano gli slogan e le caricature sventolate per la strade del Cairo. Lo stesso El Baradei, fino a ieri garbato portavoce della rivolta, come si conviene a un mite Premio Nobel per la pace, ha appesantito i toni e adesso non garantisce più la vita di Mubarak, se non se ne va entro un paio di giorni.
Non è un semplice problema di immagine, o ancor meno di protocollo. Una partenza, dopo dimissioni ufficiali in una cornice accettabile, significherebbe che l´esercito riesce a controllare la transizione, imponendole la moderazione o la linearità auspicate dagli alleati americani. I quali capiscono o addirittura auspicano una rapida partenza di Mubarak, ma sono terrorizzati dall´idea di vedere il vecchio alleato appeso a un lampione. E forse stentano a immaginare le società arabe non più mute, senza un´opinione pubblica, non più rappresentate dalle sole facce dei raìs, immutabili se non per il crescente numero di rughe. Una democrazia reale nel mondo arabo è qualcosa di imprevedibile, turba il sonno, suscita incubi, anche nel vicino Israele, che vi vede il libero scatenamento dell´islamismo.
Da quando il tenente generale Omar Suleiman è stato messo alle costole di Mubarak come vice presidente, l´esercito non ha sbagliato una mossa. Non si è lasciato coinvolgere dalla repressione; lasciandone l´inutile e degradante incarico alla polizia; ha presidiato la città, piazzando i carri armati sulle piazze e lungo il Nilo, e facendola sorvolare a bassa quota da F-16; al tempo stesso ha fraternizzato con la folla, ma con moderazione, finendo con l´approvare ufficialmente la protesta.
Una finzione? Una messa in scena? Un´abile regia?
Omar Suleiman, e i generali che l´appoggiano, hanno saputo tenere le redini in mano allentandole senza esitare quando la folla straripava ovunque, travolgendo i confini che i servizi di sicurezza avevano tracciato. Una protesta di quelle dimensioni va accompagnata; non si cerca di trattenerla. Altrimenti le redini si spezzano. E se questo accade l´esercito perde la partita e il regime, del quale è la spina dorsale, crolla.
Il secondo scenario, quello “rivoluzionario”, non ricalca, come il primo, il Muro berlinese dell´89; evoca piuttosto la partenza di Reza Pahlevi da Teheran, dieci anni prima, nel 1979. Nei due casi le realtà sono state rivoluzionate: a Berlino ha prevalso la democrazia; a Teheran è nata la Repubblica islamica. Al Cairo tutto è ancora in bilico.
Il regime egiziano risale al ´52, quando i militari prendono il potere e finisce la monarchia. Da allora ha subito mutamenti radicali, senza mai abbandonare l´autoritarismo. I primi ufficiali “liberi”, che cacciarono re Faruk, mettevano i panini imbottiti di carne di montone nei cassetti dei preziosi mobili dei palazzi reali. Quei panini avvolti in bisunti fogli di giornale, nascosti tra i profumi delle cortigiane in fuga, erano i simboli della loro austerità. Avevano installato gli uffici nei salotti d´Alessandria, ma consumavano i pasti come i battellieri del Nilo. Nasser ha promosso il socialismo arabo, che i successori Sadat e Mubarak hanno trasformato in un disinvolto capitalismo.
I militari hanno dimostrato una grande elasticità nel passare da un sistema all´altro; ed anche nell´allearsi al grande business. Della loro simpatia per la democrazia, e della loro volontà di realizzarla, è invece lecito dubitare. Non ci crede neppure troppo la folla in queste ore impegnata a superare con slancio vecchie frustrazioni, risalenti a padri e nonni. Il tenente generale Omar Suleiman, probabile successore di Mubarak, è in grado di ispirare la fiducia necessaria? Se Mubarak non sta al gioco che il suo vice presidente sta tentando, finora con abilità, lo scenario «rivoluzionario» diventa probabile. Se il vecchio presidente, prigioniero del suo orgoglio militare, continua a rifiutare di uscire di scena al più presto, lo scontro con la piazza appare una delle inevitabili conseguenze.
L´opposizione, attorno alla quale si è raccolta gran parte della società, perlomeno quella urbana, è un´ampia galassia di movimenti. Tra i quali domina, per numero e organizzazione, la confraternita dei Fratelli musulmani. I cui affiliati sono oggi per lo più estranei alla violenza e integrati alla società civile. Tra di loro prevalgono gli esponenti delle classi professionali, in particolare i medici. Attorno alla confraternita ruotano tuttavia anche correnti non indifferenti ai richiami integralisti. Ed esse, attirate in uno scontro tra la piazza e il regime, possono rappresentare una polveriera. E l´esercito, finora saggio, paziente, accorto, potrebbe reagire diversamente da quanto ha fatto finora.

La Repubblica 02.02.11

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“IL DIZIONARIO DEI LUOGHI COMUNI”, di BARBARA SPINELLI

Ancora non sappiamo quale sarà l´esito delle rivoluzioni arabe, in Tunisia ma soprattutto in Egitto.e se davvero sfoceranno in democrazie costituzionali. Ma fin da ora quel che sta accadendo costringe gli occidentali a guardare da vicino questa regione, cosa che non hanno mai fatto sul serio né dopo l´ultima guerra mondiale, né dopo la decolonizzazione, né quando il Medio Oriente ha cessato di essere un luogo quasi astratto di accaparramento e di scontro fra Urss e democrazie liberali.
Questo sguardo da vicino giunge terribilmente tardi, e sono le popolazioni stesse a trasformare il luogo da astratto in concreto: sono quelle piazze arabe i cui cuori e le cui menti si volevano conquistare, dopo l´11 settembre, con il ferro e il fuoco, esportando democrazia come fosse un foglio appiccicato da fuori sui popoli. Guardarli da vicino significa non solo provare a decifrare i loro tumulti, ma cominciare da noi: da una rivoluzione nelle nostre teste, nelle nostre parole, nei dizionari di luoghi comuni ereditati dall´epoca coloniale e all´origine di politiche contraddittorie, sostenitrici di autocrazie che erano amiche nostre ma non dei loro popoli. Le guerre da noi lanciate hanno rigonfiato in questi paesi la corruzione, l´immobilità, lo sfruttamento della persona. I tumulti sono partiti da alcuni suicidi. A differenza del kamikaze, il suicida colpisce se stesso, non l´altro. È un inizio del tutto nuovo.
Il primo luogo comune nei nostri dizionari è la suddivisione amici moderati-nemici radicali. È la gara per l´accaparramento che continua, come nella guerra fredda, con la differenza che il discrimine è il rapporto con America – e Israele – e la lotta al terrorismo. Gli amici non sono necessariamente i filo-occidentali, e ancor meno chi vuole le basi Usa. Una persona come Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti nominato vicepresidente e indicato come possibile successore di Mubarak a noi «amico», è conosciuto in Egitto come torturatore, complice delle deportazioni (extraordinary rendition) di sospetti di terrorismo nei paesi dove la tortura è normale (in Italia, collaborò con la Cia per la deportazione in Egitto di Abu Omar, nel 2003).
Tutti gli attributi cui ricorriamo (moderati, fautori di nostri valori) franano d´un colpo come accade alle bugie. I regimi a Tunisi o al Cairo, o quelli giordano e saudita, non diventano moderati per il mero fatto che avversano l´Islam radicale e non Israele. Prima o poi, se si è democratici come si pretende, deve entrare nel calcolo il favore che gli autocrati godono presso i popoli, e questo è mancato. È un atteggiamento coloniale che gli arabi non accettano più. Non è da escludere che le prime mosse dei nuovi regimi, democratici o no, non saranno filo-americane ma anticoloniali.
Il secondo luogo comune concerne l´Islam. Lo stereotipo dice: l´Islam è da sempre incompatibile con la democrazia, e saranno gli estremisti a prevalere. Anche qui, l´ignoranza si mescola a conveniente malafede: l´anti-islamismo è la colla che ha legato l´Ovest a regimi esecrati dai popoli. Non è in nome di Allah che gli egiziani hanno riempito le piazze, ieri, e che anche i giordani manifestano. Sono spinti, spesso, dal primordiale bisogno di pane quotidiano. Dai tempi delle guerre contadine nel ´500 e dalla rivoluzione francese sappiamo che il pane implica una profonda idea di pace. Oggi implica una domanda possente di democrazia, di legalità, di giustizia sociale. L´Islam radicale, compresi i Fratelli musulmani, ha organizzazioni più capillari – assistenza ai poveri, ai disastrati – ma anche se si metteranno alla testa dalle rivoluzione non ne sono i veri iniziatori e lo sanno.
Inoltre, siamo di fronte a un falso storico. Primo, perché il 75 per cento dell´Islam ha democrazie elettive, dall´Indonesia alla Turchia. Secondo, perché molti paesi hanno sperimentato la democrazia, senza riuscirci. L´interventismo occidentale ha più volte congelato tali esperimenti. Un esempio: il complotto anglo-americano del ´51-53 per eliminare il premier Mossadeq pur di salvare, sconsideratamente, l´amico scià di Persia.
Ma lo stereotipo cruciale riguarda Israele, e non stupisce che l´inquietudine maggiore si condensi qui. I movimenti arabi dovrebbero esser accolti con speranza da quella che viene chiamata la sola democrazia in Medio Oriente: è come li saluta un editoriale di Haaretz. Ma una rivoluzione mentale ancora non c´è, e per questo i timori si diffondono e sono anche fondati. La democrazia araba non gioca obbligatoriamente a favore di Netanyahu, ed è fonte di gravi pericoli se nulla cambia nella politica israeliana. In un mondo arabo assetato di libertà si vedranno più da vicino i difetti di una democrazia certo più avanzata – Israele ha una stampa libera, una giustizia indipendente – ma che occupando da 44 anni la Palestina controlla milioni di cittadini non democraticamente: declassandoli, assediandoli a Gaza, recludendoli in Cisgiordania.
Israele non cessa di essere uno Stato minacciato mortalmente, e la perdita dell´Egitto sarebbe un cataclisma. Ma anche qui l´autoesame s´impone. Gli arabi stanno abbandonando il vittimismo per entrare nell´età del potere su di sé: dalla cospirazione alla costruzione, dall´umiliazione all´azione, scrive Roger Cohen sul New York Times del 31 gennaio. La stessa emancipazione dovrà avvenire nelle teste israeliane. Il cataclisma può aiutare gli ex colonizzatori occidentali come Israele a ripensare il passato. Israele nasce nel 1948 come uno Stato etnico, nel momento in cui le democrazie europee scoprivano le catastrofi causate dagli Stati troppo omogenei fuorusciti dagli imperi asburgico e ottomano. Pur scappando dalla Shoah, gli ebrei non giunsero in Palestina come un «popolo senza terra in una terra senza popolo» (la definizione fu dello scrittore Zangwill, nel 1901). Piano piano, Israele ha dovuto vedere il desiderio palestinese di tornare nelle città da cui furono cacciati, e di costruirsi uno Stato. Ma grande è la fatica di guardare. Ancora il 30 agosto 2002, il capo di stato maggiore Moshe Yaalon dichiarava: «Bisogna fare in modo che i palestinesi capiscano nei più profondi anfratti della loro coscienza che sono un popolo sconfitto». Convinto dell´immaturità araba, Israele ha potuto negare la realtà, dire che non esistevano interlocutori palestinesi con cui fare la pace. Anche per lui sta giungendo l´ora in cui dal vittimismo tocca passare all´esercizio del potere non solo sugli altri, ma su di sé.
La democrazia araba è desiderata ormai anche da Obama. Ma più essa avanza, più cresceranno le spinte su Israele perché cessi l´occupazione dei territori, perché le colonie siano smantellate. Chiunque guardi la mappa della Palestina (il sito è Facts on the Ground – American for peace now)» vedrà una terra talmente costellata di colonie che nessuno Stato, tantomeno democratico, è concepibile.
Israele ha tutte le ragioni di preferire Suleiman a El Baradei al Cairo: perché la democrazia araba sconvolge ovunque le comodità dello status quo. È travolto lo status quo in America: Obama sarà costretto a riesumare il tema dell´occupazione. Il rischio, per Israele, è che la rivolta lambisca i palestinesi. Già si è visto quel che produce il voto democratico quando c´è stasi: vincono Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano. La democrazia può indurre i palestinesi a rinunciare a uno Stato separato; a chiedere uno Stato binazionale, senza omogeneità etnico-religiose: tutto questo, in nome della democrazia e del principio, sacralizzato proprio in America, dell´one man-one vote, «ogni uomo un voto». Un principio che in uno Stato binazionale darebbe agli arabi la maggioranza, in poco tempo. Sarà difficilissimo per Israele, a quel punto, restare immobile, guadagnar tempo, e evitare che l´America non appoggi un principio che è indiscutibile in democrazia.

La Repubblica 02.02.11