attualità, politica italiana

"La Lega democristiana", di Massimo Giannini

«Federalismo o morte», grida da mesi Umberto Bossi, brandendo la spada di Alberto da Giussano. Ma adesso che il federalismo muore, il leader della Lega rincula, ripiega. E balbetta, come l´arcitaliano di Mino Maccari: «O Roma o Orte». Nel gorgo in cui sta affondando il Cavaliere, dunque, sembra risucchiato anche il Senatur. Non solo il Carroccio non rompe, dopo il «pareggio» in Parlamento sul decreto federalista. Ma prova a tirare a campare, al fianco di un premier sempre più disperato. E così, a sua volta, accetta il rischio di tirare le cuoia.La giornata di ieri segna un altro passo verso il baratro. C´è un baratro nel quale precipitano le regole democratiche. Sulla drammatica scena del crepuscolo berlusconiano accade un´altra cosa mai vista. Un decreto, respinto da una Commissione bicamerale, viene riapprovato nella stessa formulazione dal Consiglio dei ministri. Il potere esecutivo, con un suo atto d´imperio, annulla il potere legislativo. Siamo all´ennesima «lesione» ordinamentale, voluta da un centrodestra che supplisce alla debolezza aritmetica con la scelleratezza politica. Davvero una «situazione senza precedenti», per usare le parole di Gianfranco Fini.
C´è un baratro che si avvicina per la maggioranza. Il «15 a 15» registrato nella «Bicameralina» è solo in apparenza un pareggio, ma in realtà è una sconfitta. È una sconfitta tecnica, perché quel testo, benchè riscritto da Tremonti e Calderoli, non soddisfa né le opposizioni né i sindaci. Dall´Imu alle addizionali Irpef, dalle tasse di scopo a quelle di soggiorno: la presunta «riforma federale» nasconde in realtà una stangata epocale. E nell´attesa messianica del secondo decreto, quello sul federalismo regionale, non si sa nulla del fondo di perequazione e dei costi standard delle prestazioni.
La sconfitta è anche politica. La maggioranza può anche considerare una rivincita il voto successivo dell´aula di Montecitorio sul rinvio alla procura di Milano degli atti relativi allo scandalo Ruby. Ma c´è poco da festeggiare. L´operazione di allargamento non ha prodotto risultati. Lo dice la matematica. Il 14 dicembre la fiducia al governo è passata con 314 voti. Il 19 gennaio la relazione di Alfano sulla giustizia è passata con 303 voti. Il 26 gennaio la mozione di sfiducia a Bondi è stata respinta con 314 voti. Ieri il no ai pm è passato con 315 voti. Nonostante la vergognosa compra-vendita tra lombardisti pentiti e futuristi delusi, la macchina da guerra Pdl-Lega non sfonda.
Con questi numeri non si governa. Si può superare per miracolo la prova di una fiducia, con un governo «militarizzato» e presente in aula con tutti i suoi effettivi. Ma basta un voto qualsiasi, per esempio sul decreto legge mille-proroghe presto all´esame di Montecitorio, e si perde. Si può galleggiare per qualche settimana o qualche mese. Ma con la certezza di andare a fondo, prima o poi. Il voto della Commissione bicamerale lo dimostra: la maggioranza forzaleghista non ha i numeri per far passare il decreto federalista. Se non al prezzo di un clamoroso colpo di mano, di un doloroso strappo ai principi della Costituzione e ai regolamenti parlamentari.
Ma c´è un baratro nel quale si sta ormai lasciando cadere soprattutto la Lega. Solo ieri notte Bossi usciva dal lungo vertice a Palazzo Grazioli rilanciando il suo grido di battaglia: se non passa il decreto sul federalismo si va a votare. È stato il «mantra» ripetuto ossessivamente, fin dal giorno della rottura di Futuro e Libertà. È stato il patto che ha legato le sorti del Senatur a quelle del Cavaliere: la partecipazione al governo in cambio dell´attuazione del federalismo. Non c´è il primo se non c´è il secondo: questo è il senso della strategia leghista di questi mesi. Ora questa strategia sembra sbiadita, confusa, tradita. Il federalismo non c´è, ma Bossi abbozza e dice «si va avanti».
In questo suo atteggiamento indulgente e «resistente» deve esserci sicuramente una profonda riconoscenza umana e personale nei confronti di Berlusconi. Ma persino la politica, alla fine, esige una sua coerenza. Il Carroccio sta pagando un costo sempre più alto, per puntellare un presidente del Consiglio sempre più debole. Lo certificano i sondaggi, che da tre settimane non fotografano più una Lega con il vento nelle vele. A parlare con i sindaci, ad ascoltare Radio Padania e a leggere la Padania, si percepisce uno smarrimento crescente. I militanti manifestano una forte insofferenza per gli scandali privati del Cavaliere. Ma avrebbero tollerato, di fronte alla contropartita pubblica del federalismo. Se adesso anche questa viene a mancare, al Carroccio non resta nulla da spartire in questa ennesima avventura a fianco del Sultano di Arcore.
Bossi, pur nel travaglio della malattia che lo colpito e fiaccato, non ha mai perso il profilo da combattente indomito e «rivoluzionario». Ha sempre incarnato il mito del capo di un movimento pre-politico, nato per il cambiamento e per l´affrancamento dal Palazzo. Da ieri quel profilo è intaccato, e quel mito violato. Il Senatur tratta e ritratta, subisce e patisce. Come un doroteo qualsiasi. Può accettare un simile snaturamento del suo partito, senza incassare neanche il dividendo pattuito e senza cominciare a guardare ad un orizzonte politico più ampio? Può sventolare ancora il suo logoro vessillo federalista, senza poterlo concretamente piantare in una Padania non più immaginaria, ma finalmente reale? Fino a che punto può seguirlo il suo «popolo», che sognava la terra promessa e si ritrova nella palude berlusconiana? Sono domande che un «animale politico» come lui non può eludere ancora a lungo. A meno che Bossi il Padano, per eterna fedeltà all´amico Silvio, non abbia deciso di «morire democristiano».

La Repubblica 04.02.11