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«Patrimoniale: pena di morte per chi ne vuol discutere?», di Giuliano Amato

Vorrei occuparmi d’altro questa volta, e in particolare di Egitto (e non solo), pensando alla conclusione della mia ultima «Lettera» su queste colonne, dove mi chiedevo se la rivoluzione tunisina non fosse l’alba di un nuovo giorno per l’intero mondo arabo. Ma non posso non tornare sull’idea di un’imposta una tantum volta a dare un colpo drastico al debito pubblico, perché devo esporre ai lettori le mie valutazioni sul profluvio di dichiarazioni, articoli, anatemi e scongiuri che si è scatenato attorno ad essa, dopo che proprio io l’avevo avanzata.

La mia prima impressione è stata quella di trovarmi nella stessa situazione del protagonista di una vecchia storiella napoletana. C’era stato un bombardamento che aveva fatto crollare l’intera facciata di un palazzo e dalla strada i vigili del fuoco videro al secondo piano un anziano signore seduto, attonito e perplesso, sulla tazza del bagno. Gli chiesero come si sentiva e quello rispose: «Aggio tirato la catenella dell’acqua e boom…».

Più o meno è quello che è successo a me. Io non ho mai articolato una proposta, tanto meno la proposta di una patrimoniale, ma ho invitato tutti noi a valutare con pragmatico realismo la situazione in cui ci troviamo. Abbiamo un debito molto elevato, siamo per questo in una permanente situazione di pericolo su mercati finanziari sempre più difficili, come minimo rischiamo di veder crescere la nostra spesa per interessi, e per pagarli senza aumentare il debito totale riduciamo tutto il resto senza avere mai margini adeguati per le cose che riteniamo necessarie, come la riduzione dell’Irap o la defiscalizzazione degli investimenti nel Sud oppure il ricambio di un personale pubblico sempre più invecchiato anche nei servizi di ordine e di sicurezza. Valutiamo se ci conviene questa lenta agonia o se non è meglio usare un po’ della ricchezza dei più ricchi (in modi e forme su cui non sono mai entrato) per abbassare il debito e recuperare quei margini.

Era una proposta di discussione, ha dato il via, salvo rare voci ispirate dalla ragione, a una kermesse nutrita di aggressività e costruita su stereotipi ideologici branditi al solo scopo di suscitare reazioni spaventate e ostili. Né sono mancati, com’è normale in questa Italia rissosa, il dileggio personale e gli excursus biografici volti a confermare che il vecchio Dracula è ancora malauguratamente fra noi. Certo si è che si è agitato e si continua ad agitare il fantasma di una patrimoniale che nessuno (a prescindere anche da me) ha chiesto di istituire, lo si è fatto come se la cornice non fosse quella del debito che abbiamo addosso, ma come se qualcuno si fosse svegliato una mattina nella florida Svizzera e avesse detto agli svizzeri che voleva portargli via il patrimonio, si è attribuita infine la sollevazione del problema agli incoercibili istinti della sinistra. Mentre dovremmo saperlo tutti che fu la destra di Quintino Sella e di Luigi Menabrea a tassare i neo-italiani per ridurre il debito di allora, che altrettanto fecero gli stati membri della federazione statunitense negli stessi anni e che più di recente fu Margaret Tatchter a volere la famosa poll taxMi spiace che nel mio paese prevalga tanta folcloristica acrimonia nella trattazione dei problemi comuni. Ma ciò che mi preoccupa è che possa condividerla e rimanerne prigioniero chi ci governa, quando è bene che da parte sua, ferme restando le più che legittime preferenze legate ai suoi principi e valori, rimanga tuttavia il pragmatismo necessario a non precludersi ciò che a un certo punto potrebbe risultare inevitabile. Tutti ricordano il read my lips (leggi le mie labbra) con cui Bush padre, durante la Convenzione repubblicana del 1988 che lo candidò alla presidenza degli Stati Uniti, rispose alla domanda se avrebbe mai aumentato le tasse. Le sue labbra dissero che non lo avrebbe mai fatto, la promessa contribuì certo alla sua elezione, ma poi, per ridurre il debito pubblico, fu costretto a farlo e questo gli costò non poco.

Da questo punto di vista, ho trovato peraltro incoraggiante la lettera firmata dal nostro presidente del Consiglio per il Corriere della Sera di lunedì scorso. In essa si esprime certo una comprensibile ostilità per qualunque imposizione straordinaria, ma si dice con forza che occorre sfuggire al dilemma fra la necessità di prevederla e la caduta in una gestione restrittiva e senza prospettive del bilancio pubblico, imboccando a tal fine la strada di una crescita una buona volta vigorosa.

Qui c’è un serio ragionamento economico, perché per far scendere il peso del debito sul Pil è importante ridurre il debito, ma è ancora più importante far crescere il Pil. Solo Dracula potrebbe dichiararsi pregiudizialmente contrario, mentre chiunque altro vorrà sottoporre il ragionamento a una prova di fattibilità. E l’auspicio è che la prova sia superata, come scrive Marco Deaglio (La Stampa del 1° febbraio) e come lascia intendere lo stesso Vincenzo Visco (Il Sole 24 Ore del 4 febbraio), che ritiene poco o nulla percorribile la strada dell’imposizione straordinaria.

Il fatto si è, però, che riportare l’economia italiana a una crescita sostenuta è tutt’altro che semplice e al di là dei cambiamenti simbolici come l’introduzione di un afflato più liberale nell’articolo 41 della Costituzione, si rischia di ritrovarsi davanti gli ostacoli che si vogliono invece evitare. A parte le liberalizzazioni non fatte (ma in Parlamento pende una riforma delle professioni legali che va in direzione diametralmente opposta), il problema principale delle imprese è oggi quello delle risorse finanziarie per investire e raggiungere i loro possibili mercati. E in questa fase di adattamento delle banche ai più rigidi requisiti di Basilea 3, averne dalle stesse banche è sempre più difficile e sempre più costoso. Servirebbe allora ridurre l’imposizione fiscale e contributiva e agevolare gli investimenti in ricerca e quelli nel Mezzogiorno in misura non simbolica. La situazione del bilancio ci offre i margini per farlo?
Per non parlare dell’unica riforma nella quale siamo tenuti impegnati da tempo, quella del federalismo. Essa è meritoria nell’ancoraggio ai costi standard di larga parte della spesa pubblica, ma ci si chiede se lo è altrettanto nella allocazione delle prerogative tributarie fra i vari enti di governo. Sono in molti infatti a temere che ne esca una lievitazione della pressione fiscale complessiva e forse chi si è speso tanto generosamente contro l’ipotetica patrimoniale avrebbe qui un tema più concreto per il suo impegno.

Insomma, siamo tutti per la crescita e nessuno ha voglia di mettere le mani nelle tasche degli italiani più di quanto già si stia massicciamente facendo. Ma il consiglio per chi guida è di avere la vista lunga e di non escludere nulla che possa servire domani a evitare che gli italiani, o la maggioranza di loro, un domani non l’abbiano più..

Il Sole 24 Ore 07.02.11