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"Il debito italiano nasce a scuola", di Alessandra Ricciardi

La bassa competitività del sistema Paese inizia dal basso, dalla scuola. Che, nonostante i miglioramenti dell’ultimo ventennio, mostra di essere ingessata rispetto alla sfide del sistema globale e soprattutto di aver rinunciato alla mission che l’aveva caratterizzata negli anni del boom economico, quella di fare da ascensore sociale.
L’atto di accusa è dell’Ocse, che nell’ultimo rapporto sull’educazione evidenzia investimenti inferiori alla media dei paesi europei, alti tassi di disoccupazione giovanile combinati ad alti tassi di dispersione scolastica. E poi, insegnanti mal pagati e per giunta in avanti con gli anni. Il premier Mario Monti ieri, in un momento di estrema sincerità nel confronto con le parti sociali sulla crisi, ha ammesso che le politiche di rigore inferte dal suo esecutivo hanno certamente peggiorato la recessione. Ma che è stata una scelta inevitabile per tenere sotto controllo il debito pubblico.
La scuola è stata, da ben prima di Monti, il terreno privilegiato delle politiche restrittive della spesa dello stato. La manovra più consistente è stata quella dell’ultimo governo Berlusconi: con il decreto legge 112/2008 il ministro dell’economia Giulio Tremonti dettò in pratica la riforma della scuola di Mariastella Gelmini, che doveva raggiungere l’obiettivo di ridurre di 8 miliardi la spesa dello stato, eliminando 120 mila posti di lavoro. E così l’Ocse fotografa come l’anno dopo (la ricerca infatti è riferiva ai dati del 2009) l’Italia sia stata penultima per investimenti, con una spesa pubblica pari al 4,7% del Pil, inferiore di quasi un punto percentuale rispetto alla media Ocse (5,8%), ovvero tra i 15 e i 16 miliardi di euro in meno. Il trend? Negativo, tra il 2002 e il 2009 la spesa dello stato è sempre diminuita. É aumentata invece la spesa dei privati. A differenza però di altri paesi, l’Italia investe sull’infanzia: i bambini di tre anni per il 93% vanno a scuola, contro il 66% delle media Ocse. La situazione peggiora con le medie e poi le superiori, che segnano l’inizio del disastro della dispersione scolastica: il 23% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni appartiene alla generazione dei NEET, ovvero non studia, ma neppure lavora, rispetto a una media Ocse del 16%, e in crescita con la crisi del 2008 dopo il calo che si era registrato all’inizio degli anni Duemila. Il rapporto segnala anche la difficoltà per i laureati (che sono il 15%, contro la media Ocse del 31%) di trovare lavoro: il tasso di occupazione è sceso tra il 2002 e il 2010 dall’82,2% al 78,3%. Tra l’altro i figli di genitori con bassi livelli di istruzione non riescono a migliorare: solo il 9% dei ragazzi con genitori neanche diplomati riesce ad agguantare una laurea. L’ascensore sociale si è bloccato. «Troppi giovani scelgono percorsi destinati alla disoccupazione», commenta il vicepresidente di Confindustria per l’education, Ivan Lo Bello, «e troppe aziende non trovano i tecnici che cercano. Siamo ancora troppo condizionati dagli stereotipi del passato». Il problema è quello di un sistema che resta ingessato nella scelta dei licei e dà ancora poco spazio a tecnici e professionali. L’esperienza degli Its, gli istituti tecnici superiori, voluti dall’ex ministro Beppe Fioroni, stenta a decollare: dovevano essere l’avvio di un sistema di formazione altamente specializzato e indirizzato nei programmi da stato e imprese insieme. Sull’esempio del modello tedesco, che proprio nella formazione tecnica ha trovato una delle leve della crescita economica. A rendere più pesante il percorso di innovazione del sistema scolastico, dice l’Ocse, contribuisce l’età media dei docenti nostrani: gli insegnanti under 30 sono meno dello 0,5% in tutti i gradi di scuola, contro una media Ocse che arriva al 14% nella scuola primaria (nel Regno Unito sono addirittura il 31,7%). E anche gli under 40 scarseggiano: sono il 16,6% alla primaria, l’11,6% alle medie, il 7,9% alle superiori. Da noi la porzione più cospicua di insegnanti si piazza nella fascia 50-59 anni: sono il 39,3% alla primaria, il 50% alle medie, e altrettanti alle superiori. Nella scuola secondaria la quota di over 60 sfiora il 10%. Una situazione che il ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, avrebbe voluto momigliorare con l’iniezione di docenti giovani da reclutare con l’emanando concorso. Ma svecchiare la scuola non è operazione semplice: la legge prevede che per partecipare il candidato debba essere abilitato, l’età media dei papabili così sale tra i 30 e i 40 anni, a seconda della classe di concorso. Sotto la media sono anche gli stipendi dei docenti che in Italia arrivano al top del salario dopo 35 anni di carriera, ovvero alle soglie della pensione, spiega l’Ocse. E anche raggiunto l’obiettivo si resta sotto la media dei colleghi esteri: 39.762 dollari in Italia, oltre 45mila mediamente negli altri paesi.
da ItaliaOggi 12.09.12