attualità, politica italiana

"Montismo. Se il governo dei tecnici diventa un’ideologia", di Carlo Galli

C’è un’idea diffusa, di massa, secondo cui non deve andare perduta la discontinuità che questa esperienza ha marcato rispetto al berlusconismo
E c’è invece un’idea di élite che l’appoggia. Ed è il sospetto verso la politica dei poteri forti, che fa pensare come sia meglio lasciare al comando chi ha le “competenze”. Se da vivi, mentre si gode ottima salute, e dopo un’ancor breve esperienza di potere, dal proprio cognome nasce una corrente di pensiero, o una tendenza politica — un “ismo” — significa che si è entrati nella storia. Non si parla di leninismo o di stalinismo, evidentemente, e neppure di andreottismo — per dare vita al quale Andreotti ha però speso quasi tutta una carriera — , ma dell’assai meno inquietante “montismo”: l’ultimo contributo italiano alla storia del pensiero politico — dopo il machiavellismo, il futurismo, il gramscismo, il fascismo — .
Di per sé, il montismo vuol essere la trasformazione dell’eccezione in normalità, e quasi in destino (non solo Monti bis, ma Monti for ever); è la prosecuzione di Monti — dello stile di Monti, delle finalità di Monti — con altri mezzi o addirittura con lo stesso mezzo: con Monti stesso, cioè; il quale dopo le elezioni dovrebbe essere a capo, o ricoprirvi una posizione dominante, di un governo non più tecnico ma politico (un esecutivo di larghe intese, oppure di maggioranza più limitata).
Montismo si dice in molti modi. Esiste un montismo maggioritario, di massa, che si fonda sull’idea che non deve andare perduta la discontinuità che esso marca rispetto al berlusconismo. Una discontinuità di stili e di tipi umani: da una parte l’industriale brianzolo divenuto tycoon — conservando i tratti plebei del parvenue — ; dall’altra il rappresentante quasi idealtipico della borghesia lombarda dei buoni studi, dei solidi matrimoni, delle vacanze signorili e poco appariscenti, delle professioni liberali, della cultura come habitus.
Una discontinuità che è stata accolta in patria e all’estero con stupore e favore, che è divenuta simbolo positivo di un’altra Italia, credibile e non più pittoresca; lontana dalla prima come il burlesque da un concerto per pianoforte e archi, come la buona educazione dalla cafonaggine, come il loden dalle paillettes.
Una discontinuità fra élites e populismo; non solo fra due stili, quindi, ma fra idee etico-estetiche della politica e della società.
Alla radice di questa discontinuità agisce però una continuità; l’archetipo della politica come autorità, non come mero potere. L’idea, cioè, che la politica sia affare serio, che deve essere gestito da persone serie, autorevoli, che incutono perfino un po’ di soggezione per il loro sapere e per la loro superiorità fondata sulla competenza e sulla saggezza; un’idea elitaria, certo, ma antidemocratica solo se per democrazia si intende la politica che asseconda o provoca la sguaiataggine e la devastazione del costume e del discorso pubblico, che per aderire al “popolo” fa dell’incapacità ad articolare un argomento la propria cifra.
Il montismo è la politica come distanza, come autorevolezza — il contrario del potere populista e carismatico, che si propone come “uguale” alla “gente”, che ne esprime le pulsioni più profonde —; ed è la soddisfazione per l’arrivo di “quello che mette le cose a posto”, del leader severo che rovescia il mondo rovesciato. E’ insomma la sobrietà che (col relativo mal di testa) succede all’ebbrezza e ai suoi disastri; la medicina propinata, con piglio professorale, all’Italia, il “malato d’Europa”, perché guarisca senza tanti capricci.
Montismo è quindi la rivoluzionaria restaurazione di un’immagine della politica da tempo perduta; dell’idea che è bene essere governati da uno migliore di noi che non da uno come noi o peggiore di noi. E quindi il montismo esprime anche il desiderio diffuso di un vero e credibile “uomo del fare”, dopo che colui che si era presentato come tale si è rivelato invece l’uomo dell’apparire e dell’affabulare.
Ma c’è anche un altro montismo, questa volta d’élite. Per la destra Monti è di sinistra, mentre al contrario si tratta del ritorno della borghesia moderata — da tempo assente dalla politica in senso stretto, perché l’aveva appaltata all’homo novus, a Berlusconi, rivelatosi fallimentare —, che ora vuole riprendersi il controllo dei processi economici, delle spese e delle entrate, dei debiti e dei crediti. E lo fa attraverso un suo esponente — un professore d’economia, grand commiseuropeo — che sa parlare (anche in inglese) ma non sa “comunicare”, e che non vuole “piacere”; e che anzi col suo “fare” procura qualche robusto dispiacere ai cittadini (senza guardare tanto per il sottile). Una borghesia che però alla politica è ancora riluttante, e cerca di riprendersela, certo, ma sotto la forma della tecnica. Nel montismo quindi non c’è solo la nostalgia per la politica autorevole, e il plauso verso una politica fattiva: c’è anche il sospetto verso la politica da parte dei cosiddetti “poteri forti”. C’è l’idea che dopo tutto sia meglio lasciar governare chi è non politico, ma ha le competenze tecniche per affrontare il problema centrale del nostro tempo, cioè l’economia. E che quindi sia opportuno installare ai posti di comando i tecnici, che rispondono agli input dell’economia internazionale — cose serie —, piuttosto che i politici che rispondono a elezioni politiche nazionali. La politica, come Napoleone diceva dell’intendenza, seguirà. E allora si capisce perché il montismo sia anche la bandiera di modeste forze politiche di centro, che dei “poteri forti” (finanza, imprese, mondo economico cattolico) sono l’espressione, e che appoggiando Monti si collocano alla sua grande ombra, per trarne piccoli vantaggi.
Il montismo contiene quindi speranze e diffidenze, rischi e possibilità. Può essere un sinonimo di buona politica, oppure può essere rubricato come una forma insidiosa di tecnocrazia e di plutocrazia, suscitatrice, per reazione, di un altro “ismo”: il grillismo. E può quindi essere ascrivibile all’eccezione, alla perdurante crisi politica della Seconda repubblica, alle incertezze di un Paese la cui classe politica è ancora una volta tentata di affidarsi a un uomo della provvidenza — liberale e capace, questa volta — ; oppure può fungere da ostetrica nel parto doloroso ma fausto che darà vita alla Terza repubblica, a una politica finalmente normale.

La Repubblica 04.10.12