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"La fabbrica del veleno", di Giovanni Valentini

E adesso? Che cosa diranno i signori dell’acciaio, i profeti dello sviluppo a tutti i costi, i nemici dell’ambiente e della salute collettiva di fronte all’agghiacciante rapporto dell’Istituto superiore di Sanità? Il senso della decenza — se non quello dell’etica — vorrebbe che riconoscessero i propri errori e si assumessero le loro responsabilità. I dati diffusi pubblicamente dal ministro Balduzzi non ammettono repliche. Non solo documentano il lugubre record della mortalità a Taranto e in provincia rispetto al resto della Puglia. Ma dimostrano in modo irrefutabile la correlazione fra i veleni emessi dallo stabilimento dell’Ilva e l’incidenza dei tumori nella popolazione locale, uomini, donne e bambini. Un disastro ambientale e sanitario che grida vendetta. Ma basterebbe fare un po’ di giustizia, come i magistrati di Taranto stanno cercando faticosamente di fare, almeno per fermare la catastrofe e impedire che produca altri danni, altre vittime, altre morti. Ecco, adesso, la vera emergenza.
Fin dall’inizio di questa vicenda, aperta da una coraggiosa iniziativa giudiziaria, stiamo assistendo invece a un indegno talk-show di polemiche, a un rimpallo di responsabilità, insomma a uno scaricabarile tanto ipocrita quanto inaccettabile. E sul piano personale spiace dirlo, in questa invereconda rappresentazione corale, si distingue purtroppo il ministro dell’Ambiente: lo stesso che aveva esordito evocando un impraticabile ritorno al nucleare e che ha continuato e continua a dissimulare la gravità dei dati sul disastro di Taranto, quasi spacciandola per una storia vecchia, risolta, superata. Salvo poi querelare il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, come se fosse colpevole di aver diffuso notizie false e tendenziose invece di aver denunciato una drammatica realtà.
È sempre la maledizione della diossina che, come a Seveso nel 1976, incombe su un’intera collettività: sugli operai dell’Ilva, innanzitutto, ma anche sulle loro mogli e sui loro figli, sulla popolazione di tutta una città e una provincia. Un pezzo di quel Mezzogiorno condannato a un illusorio futuro di sviluppo, nel segno di un’industrializzazione selvaggia. Ma che razza di progresso è mai quello che compromette la salute della gente, che esige il prezzo di tante vite umane? Ora il ministro Balduzzi ammette candidamente di essere rimasto «un pochino sorpreso» e confida «la sensazione che a questo punto si debba fare di più». Non bastano le malattie respiratorie e circolatorie, i tumori polmonari, quelli al fegato, al colon, alla prostata o alla vescica, per convincere il governo dei tecnici a intervenire con la massima rapidità e decisione? Si fa presto a dire che «anche rimanere senza lavoro ha poi conseguenze sullo stato della salute ». È troppo facile e comodo. Si ha quasi la “sensazione”, per usare il linguaggio ministeriale, che sia un “pochino” demagogico. E comunque, oltre che per gli operai di Taranto, il discorso dovrebbe valere per quelli dell’Alcoa, per i tanti disoccupati, cassintegrati, prepensionati, esodati, giovani e donne che, specie al Sud, cercano lavoro e non lo trovano.
L’alternativa, per l’Ilva e per tutti i casi analoghi, in un Paese civile non può essere o la borsa o la vita. L’acciaio o la salute. L’occupazione o l’avvelenamento. Quella fabbrica infernale va messa al più presto in condizioni di sicurezza, magari utilizzando gli stessi operai ai quali occorre garantire la continuità salariale. Chi inquina, paga, si diceva una volta. E chi ha inquinato, deve pagare.
La Repubblica 23.10.12
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Ilva, dati shock sulla mortalità 30% di tumori in più a Taranto “Sono causati dall’inquinamento”, di MARIO DILIBERTO
A Taranto ci si ammala il 30% in più di tumore. Peggio di quanto si potesse pensare. Fa venire i brividi il disastro sanitario e ambientale documentato dal progetto “Sentieri”, che ieri il ministro della Salute Renato Balduzzi ha illustrato qui in Puglia. Le percentuali relative a morti e malati di tumore raccontano il dramma di una città di 200mila abitanti, che convive con l’Ilva.
Quel “mostro” che dà lavoro a 12mila tute blu e sforna milioni di tonnellate di acciaio all’anno, è di nuovo sotto accusa. Il patron Emilio Riva, l’anziano industriale, è ai domiciliari per “disastro ambientale”. E il cuore della sua fabbrica è sotto sequestro, per le polveri e i fumi che secondo i pm inquinano, uccidono e fanno ammalare. L’emergenza Taranto ha trovato conferma nei dati, relativi agli anni 2003/2009, snocciolati ieri dal ministro Balduzzi. «La situazione di Taranto è indubbiamente complessa», ha detto. «Credo che sia necessario uno sforzo, anche da parte della sanità pubblica per un monitoraggio sanitario costante e un piano di prevenzione nei confronti dei lavoratori, dei bambini e di tutti, con iniziative mirate». Ma monitoraggio e prevenzione sembrano svanire quando si scorrono le percentuali. Se vivi a Taranto e sei uomo hai il 14% in più di possibilità di morire rispetto al resto della Puglia, e in particolare di morire di cancro. Percentuali che schizzano al +33% per i tumori polmonari e al dato record di +419% per i mesoteliomi pleurici. Non va meglio se sei donna. Le tarantine hanno l’8% in più di probabilità di morire rispetto alle altre pugliesi, il 13% di essere stroncate dal cancro. L’allarme si acuisce scorrendo i dati sull’incidenza dei tumori. I tarantini devono fare i conti con il 30% in più rispetto a chi vive in provincia e le donne con il 20%, con picchi del 100% per il cancro allo stomaco. Il dato più doloroso è quello dei bambini con il 20% in più di morti nel primo anno di vita. «Il progetto “Sentieri” — si legge nel rapporto — mostra incrementi significativi per tutte le cause di mortalità e malattia». Per questo ieri il primario della pediatria di Taranto, il dottor Giuseppe Merico ha denunciato «casi di cancro scoperti nei primi quattro giorni di vita. La prova — ha detto — di un danno genotossico».
Sul banco degli imputati c’è quella fabbrica al centro di una vera tempesta giudiziaria. Di lì, dicono i giudici, partono diossina e benzoapirene, veleni di produzione industriale. Il benzoapirene è un idrocarburo policiclico aromatico di cui è infarcito il pm10 che si respira ai Tamburi, il quartiere che confina con il siderurgico. «È un cancerogeno certo », spiegano dall’organizzazione mondiale della sanità. E a Taranto «il 99% di quel veleno proviene da tre reparti dell’Ilva». Quelli che i giudici hanno sequestrano e che ora vogliono spegnere.
Ma l’acciaio dell’Ilva è strategico per il Paese. E 12mila posti di lavoro non si possono buttare così. La scommessa del futuro è l’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale rilasciata pochi giorni fa dal Ministro dell’Ambiente Corrado Clini. L’obiettivo è di rendere la fabbrica eco-compatibile, obbligando la proprietà a migliorie per miliardi di euro. L’azienda, intanto, si difende, guardando al passato quando la fabbrica si chiamava Italsider ed era di proprietà dello Stato. «I dati esposti dal Ministro Balduzzi — dicono dall’Ilva — richiedono un’attenta e approfondita analisi. Da una prima lettura emerge una fotografia che rappresenta un passato legato agli ultimi trent’anni e non certo il presente».
La Repubblica 23.10.12
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“I numeri della vita e della morte”, di Alberto Orioli
Si alzano le mani di fronte ai dati della morte. Soprattutto se prende le sembianze dei tumori neonatali. Non c’è statistica, non c’è soglia, non c’è serie storica. Solo pietà. Ma non bisogna alzare le mani, impotenti, sui numeri della vita.
E la più grande acciaieria d’Europa è vita, è sviluppo, è ricchezza.
Saranno i tecnici a disquisire se il periodo 2003-2009 preso in esame dalla ricerca riproduce le situazioni ambientali esistenti oggi o se nel frattempo gli interventi già realizzati hanno indotto miglioramenti. O, peggio, se il quadro sia, in questi anni, peggiorato. Resta, per l’opinone pubblica italiana e non solo tarantina o pugliese, il tema di fondo: bisogna chiudere? Bisogna abbandonare la produzione siderurgia di Taranto, 15mila occupati?
«No, bisogna sconfiggere il cancro senza sconfiggere il lavoro» resta comunque la risposta più saggia, sia per chi abbia a cuore l’interesse ambientale, sia per chi non voglia perdere l’opportunità manifatturiera. Anche perchè Taranto significa Cornigliano, Novi Ligure, Racconigi in una Italia che, tra l’altro, sta perdendo le sue roccaforti ferrose, da Piombino a Terni, un tempo fucine della rivoluzione industriale del boom economico. Se il dibattito viene spogliato della carica ideologica e divisiva che ha assunto con il passare delle settimane, resta solo la necessità che uno sforzo eccezionale – locale, regionale, nazionale ed europeo – porti quel sito ad adattare i propri standard di produzione alle condizioni di eco-sostenibilità. Non è un rabbioso ordine di chiusura immediata che può salvare il compromesso tragico tra difesa della vita e difesa del lavoro; non è di consolazione l’utopia che al posto di quell’acciaio si possano immaginare, nell’immediato, attività terziarie o turistiche che compensino la quantità di lavoratori oggi impegnati in una delle più grandi città-d’acciaio d’Europa. Nè è sensata l’idea di chi, con cinismo, propone di ridurre la produzione per delocalizzarne la gran parte (per esportare quelle morti che vorremmo evitare da noi?).
Il compromesso è scritto nell’Autorizzazione integrata ambientale deciso dal ministro Corrado Clini. Per l’azienda è un programma impegnativo, prova ne sia la richiesta di modificare le quote di produzione considerate troppo basse. Ma la riconversione a tappe forzate dell’impianto diventato dei Riva e parzialmente riadattato, dopo aver inquinato per decenni come fabbrica di Stato, deve passare da quei vincoli: l’Ilva contesta l’anticipo di un anno (al 2014) della chiusura dell’altoforno 5, cuore strategico dell’impianto; chiede distanze di rispetto inferiori a quelle stabilite nell’Aia per il posizionamento dei parchi minerali, pena la perdita di un intero sito di stoccaggio; ritiene troppo brevi i due mesi per l’ok ai lavori e i tre anni per l’esecuzione delle nuove coperture anti-polveri; considera difficile avviare entro tre mesi i lavori per costruire edifici chiusi per lo staccaggio dei materiali pulvirulenti. Insomma, quell’Aia non è una passeggiata per l’impresa. Ma è uno sforzo supplementare ineludibile.
Altrimenti resta l’alternativa dell’abbandono e delle desertificazione industriale o cercata o indotta. Ma non sarebbe la soluzione giusta. La vera sfida, anche per far invertire il corso di quei terrificanti risultati clinici, è trasformare il sito siderurgico nel primo impianto riconvertito a produzioni eco-compatibili. Un programma che coinvolga tutti in uno sforzo organizzativo e finanziario corale, dalla città all’Europa. Sarà il modo per garantire il lavoro e per sconfiggere quelle morti inaccettabili.
Il Sole 24 Ore 23.10.12