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"La crisi dei tecnici. Quando lo spread comincia in classe", di Marco Alfieri

«Uscivi dal Pacati e avevi un posto di lavoro. Per decenni è stata fucina di tecnici e periti», ricorda con la dignità del Prof di provincia Francesco Moioli, ex preside in pensione. L’istituto nasce a Clusone negli Anni Sessanta quando i comuni della Val Seriana si consorziano per creare una scuola orientata alle professioni. Il territorio è in espansione e le ditte bergamasche finanziano i laboratori.
Con il tempo si aggiungono corsi di elettronica, informatica e tessile-moda, per soddisfare la domanda di aziende come Radici e Zambaiti. Nel 2000 la scuola tocca il record di 640 studenti, ma è l’inizio della fine: esplodono altri indirizzi, va in crisi il tessile che delocalizza e nelle famiglie cresce la mania del liceo. Nel 2010 gli alunni scendono sotto i 400. L’anno dopo il Pacati viene assorbito dall’Istituto Fantoni che comprende liceo scientifico, geometri e ragionieri. Addio specializzazione di una volta. Nel mitico Nordest l’Itis Galilei di Conegliano Veneto ha fornito per decenni quadri e tecnici alla Zoppas. Negli anni d’oro l’azienda che ha inventato la «stovella» occupava quattromila operai, stipendi buoni e Golf Gti. «Oggi usiamo le rette per riparare i laboratori», allarga le braccia il dirigente scolastico Aldo Tonet. «Le iscrizioni crescono, le famiglie tornano a scommettere sui mestieri, ma lo Stato non ha soldi».
A Bologna invece «si faceva la fila all’alba davanti all’Istituto tecnico Aldini Valeriani. Trent’anni fa c’era il numero chiuso», sorride il preside Salvatore Grillo. «Ogni due anni arrivavano 150 milioni per i laboratori, dal 2007 invece più nulla». Eppure i ragazzi del Valeriani sono diventati imprenditori di successo nel distretto del «packaging» e nella «motor valley» conosciuta nel mondo.«L’Italia è un Paese cresciuto grazie a geometri e periti industriali», s’inorgoglisce Grillo.

Se prendiamo le tabelle Istat, storicamente quando crescono le iscrizioni agli istituti tecnici (il record nel 1990 con 1,3 milioni di studenti) aumenta il Pil nazionale e viceversa (il Paese è fermo da 15 anni e le iscrizioni sono crollate alle 900 mila del 2010). Solo un caso?

Tra gli spread italiani quello sulla scuola è il meno raccontato. «I 30 punti di competitività persi in 15 anni sulla Germania nascono anche in aula: formazione e mondo del lavoro restano entità separate», spiega Gianfelice Rocca, presidente di Techint, curatore insieme all’associazione Treellle della ricerca «I numeri da cambiare» sui deficit della scuola italiana: una primaria priva di selezione per insegnanti e presidi; le medie buco nero; i pochi investimenti sull’università (1% del Pil contro 1,4 di media Ue) ma soprattutto la debolezza della seconda «gamba» professionalizzante, la vera forza della Germania dove il 14% dei giovani consegue diplomi su mestieri richiesti dalle imprese (in Italia 0,5%). Gaffe o meno del ministro Fornero, da qui bisogna partire.

In passato non era così. «Negli anni del boom c’erano imprenditori alla guida degli istituti tecnici», ricorda Claudio Gentili di Confindustria. Non c’era pregiudizio artigiano. «È con gli Anni Settanta che nella scuola secondaria prevale il modello dello studio teorico», trasformando in senso comune l’idea che la cultura sia solo quella umanistica e il sapere tecnico serie B.

«In realtà, grazie all’esplosione dei diplomi nel periodo 1985-1998, l’Italia si è allineata agli standard Ue sulla scolarità secondaria: 85 giovani su 100 hanno conseguito un diploma o una qualifica contro una media Ocse dell’80%», spiega Carlo Barone, ricercatore all’università di Trento, autore del saggio «La trappola della meritocrazia» (Il Mulino). «Il mercato del lavoro non ha bisogno di più diplomati», destinati ad avvitarsi nella spirale liceo-laurea debole-disoccupazione, «bensì di giovani capaci di svolgere con professionalità i lavori manuali».

«I ragazzi e le famiglie chiedono i licei; il mercato del lavoro anche in tempi di crisi tecnici di laboratorio, informatici, progettisti elettronici e meccanici, responsabili di produzione», calcolano da Unioncamere. Solo nel 2009 c’è stato un gap di 84.269 diplomati tecnici, nel 2010 di 109.826, nel 2011 di 99.500. Paradossale, con una disoccupazione under 24 arrivata al 36,2%. Gli esperti di scuola lo chiamano «strabismo italiano». Negli ultimi 20 anni per competere le Pmi hanno aumentato dal 12 al 22% la quota di tecnici sul totale occupati, contemporaneamente sui banchi di scuola è avvenuto il sorpasso dei licei su Itis e professionali (nel 1990 il 46,6% degli iscritti alle secondarie frequenta le tecniche e il 31,3% i licei; nel 2010 la percentuale si è rovesciata: 41,5 a 33,5%). Il rischio è disperdere quel patrimonio di manualità che fece la fortuna dei distretti.
In Germania la formazione professionale è più valorizzata. Prevede l’alternanza di lezioni in classe, laboratori e tirocini in azienda. In Italia è ancora vista «come un vicolo cieco per studenti svantaggiati e tutti i rami delle superiori (licei, tecnici, professionali) offrono percorsi poco professionalizzanti continua Barone -, privilegiando una formazione generalista che non chiuda le porte dell’università, anche se poi questo sistema “aperto” scatena una feroce selezione informale tramite bocciature e abbandoni».

Qualcosa si è mosso con la nascita dei percorsi triennali di Istruzione e formazione professionale (Ifp), gli eredi dei corsi regionali di formazione. Nel 2008 il 6,5% dei 14-17enni frequentava un Ifp. «Un dato in crescita, peccato che le Regioni non abbiano soldi da investire…».

La Stampa 24.10.12