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“Dove si annida il populismo”, di Alfredo Reichlin

Sarà forse perché ho conosciuto la politica in un tempo più terribile di questo e mi hanno insegnato l’importanza che ha capire a che punto della storia ci si trova. Ma sono convinto che la sinistra e le forze progressiste di oggi non possano sottovalutare la grandiosità dei mutamenti in cui sono coinvolte. Parto quindi da quel che considero il problema che più ci assilla in questo momento: cosa c’è davvero dietro questo tracollo sconvolgente del sistema politico. Il fatto che il Partito democratico non solo resista, ma si confermi sempre più come il pilastro della democrazia italiana è certamente un dato molto importante. Tuttavia occorre fare attenzione, poiché questo collasso non è solo frutto delle malefatte dei singoli, della mala politica, ma va letto anch’esso come l’esito di processi più profondi, che interpellano anche noi e il progetto di un partito “nuovo”. Stiamo attenti. Quando parliamo di collasso del sistema politico ci riferiamo a qualcosa che attiene all’articolazione stessa dello Stato democratico, alla formazione delle sue classi dirigenti, alla divisione e all’equilibrio dei poteri. Letto così, questo crollo è figlio, a mio avviso, dell’anacronismo del sistema sociale e di potere italiano. Del suo reale «blocco storico», dominato come è dal mare delle rendite. Esso si ripercuote – certo – sul sistema dei partiti, ma riguarda gli assetti reali del Paese, il complesso dei legami, dei compromessi sociali, la sua fisionomia storica. Insomma, ciò che rappresenta la sostanza della comunità nazionale e la base della sua difficile unità. Un sistema anacronistico che si rivela sempre più tale essenzialmente rispetto a un fatto storico del tutto nuovo: e cioè che è in atto una nuova fase d’integrazione internazionale connotata da un processo di europeizzazione che investe anche l’Italia, e non nelle forme timide o marginali immaginate finora. Noi saremo sempre più un pezzo dell’Europa in costruzione. È esattamente questa sfida straordinaria che impone la costruzione di una nuova compagine nazionale la quale sia in grado di partecipare, con le sue risorse, la sua cultura e i suoi bisogni, a un processo di tale portata, senza esserne travolta o amputata.
Ecco, se questa è la qualità e la profondità del problema che abbiamo di fronte, mi pare di poter dire che esso non è presente nella proposta politica di Matteo Renzi. Aggiungo che se è vero che il processo, qui solo accennato, è già in atto, allora è chiaro che un tale cambiamento ha bisogno di essere guidato in modo più esplicito. Il compito nostro, se siamo un grande partito, nazionale e popolare, è appunto quello di assumere la guida di questo processo così da renderlo evidente agli occhi di un popolo che mai come adesso appare smarrito e che s’interroga su di sé e sul proprio avvenire. Il punto – vorrei essere chiaro – non è solo rivendicare, come pure è legittimo, una diversità sul piano morale. Il Pd dovrebbe, piuttosto, coltivare l’ambizione di porsi alla guida del Paese e affrontare da lì il nodo di una ri-organizzazione delle forze nazionali. Occorre ribadire, esplicitando ancora di più e meglio ciò che è pur detto nella Carta d’intenti, che noi stiamo costruendo un partito per un nuovo Paese, per un Paese che sceglie di collocare compiutamente se stesso, le sue istituzioni e il suo destino, nel contesto di una nuova Europa. A questo proposito il neo-presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, ha detto qualcosa d’importante quando ha affermato che il voto espresso dagli elettori dà speranza all’europeizzazione di quella terra. Insomma, la mia impressione è che noi ci troviamo di fronte non soltanto a una crisi e a un momento di decadenza, ma a un nuovo passaggio storico che mette in luce nuovi assetti statali e nuove forze reali. Ecco perché sta a noi rendere esplicito su quali di quelle forze intendiamo far leva, ridefinire i nostri punti di riferimento e le realtà con le quali intendiamo entrare in campo e giocare la partita.
Non bisogna cedere alla tentazione della semplificazione. Non tutto ciò che si muove oggi contro i partiti può essere liquidato come populismo. Occorre, invece, interrogarsi sulla qualità dei partiti, su quel loro invecchiamento culturale che li rende inservibili di fronte a una realtà in movimento. Nel grillismo, ad esempio, io vedo, accanto alla delusione e alla sfiducia, una grande domanda di partecipazione e di rappresentanza che, se non troverà l’interlocuzione adeguata, allora sì, certamente, potrà determinare regressioni populistiche o favorire strategie elitarie di uscita dalla crisi.
E qui entra in gioco il grande tema del lavoro. Ma, aggiungerei subito a scanso di equivoci, il lavoro moderno. Perché a questo punto diventa decisivo avere una visione aperta delle realtà sociali per ciò che sono, con un’attenzione particolare a tutto quanto rientra o può rientrare sotto il capitolo dell’innovazione. Lo sottolineo perché da tempo il lavoro non è più solo quello manuale, ma si esprime attraverso le professioni, nuove esperienze e capacità che si sono affermate e sviluppate in buona misura grazie alle nuove tecnologie. Sono forze positive con le quali dobbiamo dialogare nella consapevolezza che non è lì che si annida la resistenza al cambiamento, la conservazione. Solo così la sinistra e le forze progressiste riusciranno pienamente a rappresentare ai loro occhi una garanzia concreta, affidabile. Ecco perché, nel rimettere al centro il lavoro, noi non possiamo limitarci alla sacrosanta difesa del lavoro operaio. Vedere nel lavoro la grande risorsa italiana significa fare appello alla creatività, alla capacità che c’è nella nostra gente e che è esaltata dai nuovi strumenti della rivoluzione digitale e del salto che è avvenuto nelle reti informative. Lo dico in modo semplicistico, si tratta di proporre una rivoluzione di portata simile a quella che guidò l’emancipazione delle genti rurali, ponendo maggiore attenzione agli spazi enormi che si stanno aprendo e incoraggiando i soggetti nuovi che sono già in campo, fornendo loro nuovi linguaggi, obiettivi, traguardi.
La sfida, insomma, è tornare a esercitare una influenza maggiore nei confronti delle nuove forze produttive. Favorire il loro sviluppo, compresa la cultura e il capitale sociale, è un vecchio tema della sinistra, ma resta la sola vera porta d’ingresso – soprattutto del Mezzogiorno – nel nuovo mondo. Capire questo significa percorrere fino in fondo la strada tracciata da Bersani, che vede nel «partito aperto» l’infrastruttura principale al servizio di un nuovo bisogno di rappresentanza. Non un partito che abbia la pretesa di comprendere dentro di sé, nei suoi riti, nei suoi meccanismi, tutto quanto si muove nella società, ma che sappia incoraggiare e governare i processi più innovativi. Una funzione di questo genere presuppone, naturalmente, anche un’idea molto larga delle alleanze non soltanto politiche, ma sociali. Può tornare utile, a questo proposito, ricordare la lezione più alta di Di Vittorio. Quando lavorò al Piano per il lavoro, egli offrì non soltanto delle idee, ma un’alleanza fino ad allora inedita e che, anche per questo, non mancò di suscitare diffidenze in determinati settori del Pci. Fondamentale è stata anche la decisione di Bersani di impegnare il Partito nell’avventura delle primarie. A fronte dei dubbi, certamente legittimi, espressi da alcuni all’inizio dell’estate, le ultime settimane hanno dimostrato la correttezza di quell’intuizione che ha proiettato il Pd in un grande esercizio di democrazia e partecipazione, sottraendolo a uno scenario politico segnato dalla decadenza e dagli scandali.
In sintesi, noi siamo in campo e ci stiamo ponendo alla guida di una riscossa culturale e democratica del Paese. Sarà un compito difficile e per riuscire nell’impresa avremo bisogno di tornare a pensare l’economia, la società, la cultura, senza timidezze e subalternità, ma anche senza le scorciatoie delle figure solitarie al comando. Non è solo di un Capo che oggi abbiamo bisogno. Ma di una nuova visione storica e politica.
L’Unità 04.11.12

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