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“Le ragioni dell´incertezza”, di Vittorio Zucconi

La crepa dell´incertezza attraversa come una faglia sismica la giornata della democrazia elettorale americana, aprendo l´ipotesi di ogni terremoto possibile. Era dal duello fra Truman e Dewey nel 1948, di Nixon contro Kennedy del 1960 e dall´indimenticabile tragicommedia di Bush e Gore decisa da 530 voti nel 2000, che l´America non si presentava al proprio massimo rito civico con tanti dubbi.
Oltre il confine dei sondaggi, che restano tutti ben all´interno dei margini di errore, dunque possono essere rovesciati dal voto, c´è una nazione che non si riconosce né in Romney né in Obama. C´è un elettorato che sceglierà il repubblicano per puro odio del democratico, e un altro che appoggia svogliatamente il presidente pur di non cedere il timone. Oggi saranno costretti a scegliere senza vero trasporto qualcuno che non vorrebbero.
Le crepe dell´incertezza attraversano geografia e demografia, dividono Stati e città, Atlantico e Pacifico, maschi e femmine, giovani e anziani, ricchi e meno ricchi, bianchi e non bianchi e sembrano, anziché saldarsi, aprirsi.
Non c´è un “partito di Romney”, entusiastico e mobilitato come ci fu due volte per Reagan, negli anni ´80, e una volta per George W. Bush, nella sua seconda elezione. C´è soltanto il “non Obama”. Ma non c´è più neppure il partito di Obama, quell´onda formidabile di entusiasmo che portò alle urne, il 4 novembre del 2008, 130 milioni di cittadini, la cifra assoluta più alta nella storia della democrazia Usa, con un´affluenza di oltre il 61 per cento, seconda soltanto al 63% del duello fra Kennedy e Nixon, oltre mezzo secolo fa. Il movimento spontaneo di giovani elettori, di donne single, di ispanici, ovviamente di afroamericani, si è arenato nella palude di una presidenza che non ha scaldato i cuori. Dunque Obama deve promettere di “andare avanti” – “forward” come dice il suo slogan – lungo una strada che non ha sedotto e non affascina. Romney deve far brillare arcobaleni di prosperità e di riduzioni fiscali, che non ha spiegato come potrebbero conciliarsi.
E sono, nelle ore del voto, più le domande che le risposte offerte dalle interviste. Il vantaggio del quale il primo capo dello stato nero nella storia Usa gode fra i suoi “fratelli e sorelle”, fra gli immigrati latinos, fra le giovani donne, fra i ventenni, sarà superiore all´handicap che lui porta nel voto dei maschi bianchi adulti, delle madri di famiglia, dei pensionati “over 65” in Florida, soprattutto quel blocco di voto ebraico che ha ormai sostituito l´obsoleto “voto cubano”? Il Nord e il West, le fortezze indispensabili per Obama, produrranno un margine sufficiente per compensare l´implacabile ostilità che tutto il Sud, l´antica Dixieland dei ribelli e della bandiera con la croce di Sant´Andrea, coltiva per lui?
Sulle proprie roccaforti, la campagna del presidente si è rinchiusa, in una Linea Maginot in Ohio, Michigan, Pennsylvania a rischio di cedimento del fronte interno.
Davanti alla Maginot obamaniana, gli strateghi di Romney hanno utilizzato una guerra di movimento, spostando su tutti i punti del fronte il proprio candidato elastico, informe e malleabile. Radicali di destra come di sinistra, dagli Occupy Wall Street al Tea Party ribelle contro l´establishment, convergono. Il loro punto d´incontro è nel disprezzo per Obama, il traditore.
Il diverso. Il troppo “di sinistra” o troppo poco.
Romney e Obama non sono riusciti mai a chiarire quali siano i propri progetti, ad articolare le proprie pur tanto diverse “idee d´America”, creando un´area grigia nella quale l´elettorato brancola ancora incerto, dunque esposto ai venti dell´ultima ora. Il vantaggio di Romney è di poter contare su un nucleo di irriducibili alle soglie della demenza, come quel Donald Trump disposto a offrire 5 milioni contro Obama, gente che vuole cacciare quella famiglia di “usurpatori” dalla Casa del padrone. Ma nell´insistenza torva si sono aperte crepe di incertezza e di ripensamento fra i repubblicani più moderati e razionali.
Le donne, sempre la maggioranza, vacillano divise fra le più giovani, sensibili alla libertà di scelta, alla procreazione cosciente, e le meno giovani, più in ansia per il lavoro proprio, del coniuge, dei figli. I pensionati non sanno se credere alla terra promessa della privatizzazione indicata da Romney e dal suo vice Ryan, o restare aggrappati a quel poco di welfare che lo stato fornisce e ai vantaggi della riforma sanitaria. I neri si sentono amareggiati, dopo tanti sogni. I giovani sotto i 24 anni, già mobilitati per Obama, faticano, per naturale impeto anagrafico, ad accontentarsi del poco, o non abbastanza, fatto.
L´incertezza produce l´effetto toss up, il lancio in aria della moneta senza sapere da quale parte cadrà. Testa o croce? Obama o Romney? Cinquanta probabilità contro cinquanta, nella terra americana che brontola sotto i piedi della politica.
La Repubblica 05.11.12
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Soldi, welfare, sogni braccio di ferro sul futuro dell´America”, di Alexander Stille
Mio suocero, da buon repubblicano, è per me un ottimo termometro per misurare l´umore dell´elettorato conservatore. «Sono preoccupato anch´io dal problema della crescente disuguaglianza: so bene che frena le opportunità» mi ha detto l´altro giorno. «Ma sono ancora più preoccupato dalle spese governative fuori controllo. Se andiamo avanti così, finiremo come la Grecia». Durante la sua ultima visita è stato immerso nella lettura del libro “La Via della Schiavitù,” dell´economista austriaco Frederich Hayek: un libro del 1946 ma bestseller a sorpresa in questi giorni nel mondo conservatore. La tesi del libro è che lo stato sociale moderno nato dopo la Seconda guerra mondiale ci porterà verso un nuovo totalitarismo. Mentre è francamente difficile vedere la sagoma di Stalin o Hitler nei sistemi pensionistici o sanitari della Francia o della Germania, i conservatori americani di oggi vedono la realizzazione della visione di Hayek nelle difficoltà dell´Europa. Solo l´altro giorno Romney ha detto che se vince Obama gli Usa finiranno come la Grecia, la Spagna e l´Italia.
Oltre una corsa tra due candidati e due partiti, queste elezioni rappresentano la gara tra due visioni dell´economia e del rapporto tra stato e mercato. I due partiti guardano statistiche diverse, privilegiano indici diversi ma tutte e due guardano una situazione di stagnazione di redditi e diminuite opportunità per la classe media, offrendo soluzioni radicalmente diverse.
Quello che gli elettori di Barack Obama vedono è una disuguaglianza economica crescente che rischia di vanificare il sogno americano. Nel periodo tra il 2002 ed oggi, per esempio, quasi 70% della crescita economica è andata all´uno per cento più ricco della popolazione. Negli anni ‘60, per fare un paragone, circa 65% della crescita è andata al 90% della popolazione più povero. I ricchi non soffrivano. Ma i ceti medi e bassi guadagnavano.
Dagli anni ‘70, invece lo stipendio medio americano è sceso, soprattutto per gli uomini senza una laurea. Le famiglie americane hanno mantenuto il loro tenore di vita solo grazie all´entrata delle donne nella forza di lavoro. Però oggi, negli anni 2000, anche famiglie con due stipendi hanno meno soldi. Per un rapporto della Pew Charitable Trust, il reddito annuo della famiglia media è sceso di 3.500 dollari dal 2000 al 2009. «È il primo decennio dopo la Seconda guerra mondiale dove la classe media ha meno reddito alla fine del decennio rispetto all´inizio», dice Paul Taylor, autore dello studio.
Mitt Romney ha fatto leva su questo quadro, sostenendo che una famiglia media ha perso 4.300 dollari durante l´amministrazione Obama. Ha omesso che il trend vale anche per l´amministrazione Bush e addirittura che la crisi dei redditi risale agli anni ´70 e ´80. Per i repubblicani, il problema non è il divario tra ricchi e poveri ma la stagnazione economica e la crescita diminuita degli ultimi anni, non solo negli Usa ma anche in Europa. Il problema numero uno, a loro avviso, è la crescita dello stato sociale che pesa sempre di più sull´economia e impedisce la crescita. Secondo Romney e i repubblicani, uno stato sociale generoso è insostenibile nel futuro, anche a causa dell´invecchiamento della popolazione. Ed è indesiderabile perché un governo troppo generoso crea dipendenza, toglie iniziativa, e crea un deficit che strangolerà l´economia. Il noto commento di Romney sul 47% degli americani che non fanno altro che aspettare aiuti del governo è stato imprudente ma rispecchia un´opinione diffusa tra elettori repubblicani.
La sostenibilità dello stato sociale e il deficit sono problemi reali nel lungo termine, secondo i democratici: ma ritengono che la formula repubblicana sulle tasse sarà un disastro per la nostra economia. In un libro recente, il politologo Larry Bartels, “Unequal Democracy”, ha dimostrato che l´economia americana è cresciuta di più sotto presidenze democratiche che sotto quelle repubblicane. Non solo in termini assoluti ma anche in termini relativi: quindi la crescita è stata più equamente distribuita. Dal 1980, gli Stati Uniti hanno vissuto, con brevi eccezioni, nel paradigma economico di Ronald Reagan. La formula economica è stata tasse più basse (soprattutto per i ceti più alti) e vedremo più produttività, che sarà eventualmente diffusa in tutti i ceti sociali. E Romney propone più o meno la stessa cosa: abbassare il livello di tassazione per i più ricchi dal 35 al 25% e eliminare le tasse di successione. Ma un rapporto recente del Congressional Budget Office (CBO, ufficio bi-partisan del congresso) ha concluso che non c´è nessun rapporto scientifico tra tagli alle tasse e crescita economica. Il CBO ha dovuto ritirare il rapporto dopo una protesta dei repubblicani nel Congresso.
Ma secondo Joseph Stiglitz è proprio la re-distribuzione del reddito verso i ceti più alti a rallentare la crescita. I più ricchi prendono sempre più risorse, anche grazie all´accesso al sistema politico, e creano un ciclo vizioso in cui le loro ricchezze si moltiplicano. Infatti, è la disuguaglianza è sempre stata giustificata citando la forte mobilità economica e sociale negli Usa. Ma i dati degli ultimi decenni contraddicono questa tradizione. Gli Usa hanno una mobilità economica inferiore rispetto a molti paesi europei e un livello di disuguaglianza maggiore. Quindi, i democratici propongono più investimenti in educazione, ricerca e più re-distribuzione dei redditi con alcuni aggiustamenti per rendere lo stato sociale sostenibile. Mentre i repubblicani vorrebbero disfare molta dell´impalcatura dello stato sociale, perché lo vedono come l´ostacolo principale alla crescita.
La Repubblica 06.11.12