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"Ilva, così si chiude", di Mariantonietta Colimberti

I custodi tagliano i rifornimenti. Oggi Clini incontra l’azienda
Se Clini oggi non tirerà fuori un coniglio dal cappello (ma quale?) quando incontrerà i vertici dell’Ilva, la lunga e controversa storia del più grande siderurgico d’Europa potrebbe avviarsi davvero verso un esito drammatico.
Ieri i custodi giudiziali hanno vietato all’azienda di scaricare quantitativi di minerali superiori a 15 mila tonnellate. La disposizione è arrivata dopo un sopralluogo nello stabilimento. «L’Ilva consuma 50 mila tonnellate di materie prime al giorno – è stata la risposta immediata venuta da fonti interne – limitare lo scarico a 15 mila tonnellate e porre il vincolo della giacenza di 15 giorni vuol dire una cosa sola: chiudere tutti gli impianti nel giro di pochi giorni». Non solo, aggiungono le fonti aziendali, intervenire in questo modo significa anche chiudere male gli impianti perché non ci sono più le materie prime per alimentarli, non si rispettano le procedure di sicurezza per la fermata e li si danneggia. A questo punto – è la minacciosa conclusione filtrata dall’azienda – «non è più questione di autorizzazione integrata ambientale o meno perché la fabbrica chiude e tutti gli impianti devono essere spenti. Uno scenario verso il quale siamo incamminati nel giro di pochissimi giorni se la linea dei custodi non cambierà ».
La situazione, dunque, potrebbe subire una accelerazione dalla quale sarebbe sempre più difficile tornare indietro. Il braccio di ferro che da quattro mesi circa oppone l’Ilva e la procura, nonostante l’iniziale effetto “calmierante” dell’ex prefetto Bruno Ferrante, arrivato a presiedere la società per conferirle un’immagine più “buona”, non accenna a risolversi. Al contrario, sembra indurirsi ancora. Nemmeno l’arrivo della nuova autorizzazione ministeriale sembra aver compiuto il miracolo. Le ragioni sono più d’una e attengono a diversi ordini di fattori.
Innanzitutto, le disposizioni di Clini sul risanamento degli impianti nella loro versione finale sono risultate più severe di quanto la stessa Ilva si attendesse, soprattutto sotto il profilo dei tempi di applicazione e dei costi complessivi. In secondo luogo, non si è mai risolto l’aspetto giudiziario della vicenda, le cui conseguenze incombono su impianti e persone (Emilio Riva, il figlio Nicola e l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso sono tuttora agli arresti domiciliari) e l’azienda non ha alcuna intenzione di impegnarsi in costosi investimenti senza una sicurezza sull’utilizzo degli impianti sotto sequestro. Infine, secondo i maligni, l’Ilva sta tirando la corda perché in realtà non vuole ottemperare alle prescrizioni del ministero, tanto più in un momento in cui il settore incomincia a risentire della crisi di mercato: la cassa integrazione annunciata per duemila dipendenti a partire dal 19 novembre e per 13 settimane non riguarda l’area a caldo sotto sequestro, bensì l’area a freddo. Ne sarebbe prova la lettera inviata due giorni fa dall’Ilva al ministro Clini in cui si chiede il dissequestro degli impianti allo scopo di presentare non il piano attuativo dell’Aia, bensì un nuovo piano industriale.
L’allarme, a questo punto, è massimo. Tanto perché sia chiaro il clima che regna in fabbrica, i lavoratori dell’area “movimento ferroviario”, dove la scorsa settimana c’è stato un incidente mortale, hanno mandato deserta l’assemblea che era stata indetta unitariamente dai sindacati. «Lo stato ci aiuti» è l’appello rivolto ieri in una lettera a Giorgio Napolitano dal sindaco di Taranto, Ippazio Stefano.
da Europa Quotidiano 09.11.12