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“Vita da precari”, di Saviana Colazza

Siamo senza certezze, e intanto facciamo lezione, consigli di classe, verbali, prospetti gite, correzioni, in una scuola che cade a pezzi… In una scuola con alunni difficili, in una scuola dove mancano ancora professori, dove bisogna consolare i colleghi che escono in lacrime perché non riescono a fare lezione, perché sono considerati Nessuno Ci sono alcuni giorni che non si amano per se stessi ma per l’attesa che lì prepara.
Uno di questi, è il primo giorno di scuola per noi precari di terza fascia. Quelli che, come me, non hanno passato il test Tfa, quelli che non possono fare il concorso perché troppo giovani (laureati dopo il 2003). Quelli che ogni hanno mandano avanti la scuola pubblica.
Il nuovo anno scolastico inizia così, nell’attesa di ricevere un sms, una mail, una telefonata.
Nel frattempo, faccio il solito giro di fax e raccomandate alle scuole paritarie, almeno lì ci assicurano la continuità, almeno lì, sottopagati, ci assicurano punteggio.
I giorni passano nell’attesa e nello scambio di telefonate consolatorie con amici–colleghi.
Ecco che agli inizi di ottobre, avviene il miracolo, la casella di posta elettronica, contiene una mail di convocazione; il mio cuore sussulta come quello di un bambino che varca le porte della scuola media. Non posso cantare vittoria, però, le convocazioni, per noi di terza fascia, sono collettive, quindi bisogna sperare di essere i primi della lista e che si presentino poche persone.
Il giorno tanto atteso arriva, la notte passa insonne per l’emozione.
Arrivo a scuola e siamo una ventina di colleghi, ci scrutiamo come belve feroci, impaurite e impotenti di fronte al volere degli Dei (il Miur nel nostro caso). Arriva il segretario, legge i primi nomi della lista, ci sono anche io tra quei primi nomi, gli Dei mi hanno ascoltato!
Gli altri, come in un provino da reality, vengono rispediti a casa con un “grazie sarà per la prossima volta”.
Inizia così il mio primo giorno di scuola… inizia così il mio viaggio, il nostro viaggio, un viaggio di speranza, di passione, di amore, un viaggio senza meta, senza coordinate, il viaggio degli “AVENTI DIRITTO”. Siamo come Ulisse: i “Nessuno” della scuola.
“Avente diritto”, è il nostro contratto, senza infamia ,senza lode, senza gloria e soprattutto senza data.
Aspettiamo di ricevere notizie dagli Dei dell’Olimpo, ogni mattina aspettiamo di conoscere la nostra sorte, cosa sarà di noi? Resteremo fino a fine anno? Ci cambieranno scuola? Torneremo a casa?
Intanto facciamo lezione, consigli di classe, programmazioni, verbali, prospetti gite, compiti in classe, correzioni, in una scuola che cade a pezzi, che si sgretola giorno dopo giorno. In una scuola con alunni difficili, problematici, in una scuola dove a metà novembre mancano ancora professori (nella mia classe ne mancano tre). In una scuola dove bisogna consolare i colleghi che escono in lacrime dalle classi perché non riescono a fare lezione, perché sono considerati Nessuno.
Come possiamo dare stabilità a questi ragazzi? Come possiamo creare empatia e fiducia reciproca quando non possiamo nemmeno mantenere la promessa di portarli in gita a primavera perché non sappiamo se restiamo? Come è sostenibile a fine novembre che si devono sistemare le graduatorie?
Non dovrebbe essere questo un Paese civile? Non dovrebbe essere la scuola le fondamenta di tale civiltà?.
Qui non si tratta di lavagne elettroniche ed effetti speciali. Qui si parla di persone. Non è questione di forma, ma di ri-forma mentis.
Io vorrei aiutare i ragazzi a scovare i talenti, le passioni, sfidarli, metterli alla prova, cercando di non farli illudere a viver di sogni campati in aria, ma allo stesso tempo insegnargli a sognare e ad acquisire la pazienza necessaria per realizzarli quei sogni, facendoli diventare progetti.
Aiutarli ad essere liberi , ricordargli che non esiste Unità d’Italia se non sono loro i primi ad essere uniti.
Ricordargli quanto è bello il nostro paese facendogli venir voglia di scoprirlo
Renderli forti non nascondendogli le battaglie ma donandogli il coraggio per affrontarle
Spendersi in questo mestiere è faticoso e non sono rari i casi in cui viene voglia di attenersi allo stretto necessario o all’abbandonarsi alla routine, senza impegnare la propria creatività per stanare qualche studente spento o semplicemente per portare un po’ di bellezza tra le mura della scuola.
Per essere me stessa sono chiamata a insegnare bene e scrivere bene. Fosse anche solo per uno, in una classe. Il mio lavoro è quello del postino che permette alla lettera di arrivare al destinatario, il mio lavoro è quello del contadino che lancia i semi su vari tipi di terreno. Quel seme viene a volte soffocato, a volte strappato via, a volte accolto.
TUTTO DIPENDE DAGLI DEI DELL’OLIMPO MIUR….e DAGLI DEI GOVERNANTI….
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