attualità, memoria

“Piazza Fontana. Solo la memoria”, di Oreste Pivetta

Milano sono passati quarantatre anni dal pomeriggio della bomba nella Banca dell’Agricoltura, il 12 dicembre 1969. L’esplosione avvenne alle 16,37. Una giornata scura di un cielo nero. Quarantatré anni sono un tempo lunghissimo e incomparabilmente più lungo di qualsiasi ciclo storico abbia caratterizzato il nostro novecento. Dalla fine della prima guerra mondiale, una catastrofe, all’inizio della seconda trascorse appena un ventennio di pace (non tenendo conto del preludio, circoscritto, spagnolo e delle varie imprese coloniali). Un ventennio durò Mussolini. Da un ventennio vediamo agitarsi attorno ai tavoli della nostra politica Silvio Berlusconi e pare una eternità, al punto da poter «imbalsamare» il suo protagonista al modo di una mummia.
Eppure quei quarantatré anni dalla strage di Piazza Fontana sembrano pochi, certo per la forza simbolica di quella tragedia, per quei morti innocenti, per l’inquietante compromissione delle pubbliche istituzioni, compromissione che grava ancora come un’ombra esprimendo qualcosa di irrisolto nella definizione della nostra democrazia (e un tratto mai interrotto con il nostro passato fascista), per l’improvviso riapparire di fantasmi del passato.
La memoria non è mai morta, forse perché la strage di piazza Fontana con il suo dolore, con il sangue, con gli intrighi, rappresenta la svolta in una storia iniziata almeno un decennio prima, la seconda stagione della ricostruzione, che non si interruppe ma che si gravò di infinite contraddizioni, che avrebbero condotto al disastro degli anni ottanta e dei successivi.
LA FINE DELLE ILLUSIONI
La bomba distrusse molte certezze comuni: nella saldezza della nostra democrazia, nella prospettiva di sviluppo, in una società segnata dalla giustizia, dalla solidarietà e da un benessere conquistato con il lavoro (quando ancora la «fabbrica» era centrale). Dopo le certezze, rimasero le speranze o le illusioni, che l’assassinio di Aldo Moro e il crollo dell’esperienza della solidarietà nazionale spazzarono via, aprendo la strada a Craxi e poi a Berlusconi, all’appropriazione dello Stato da parte di alcuni «potentati» e di alcune «famiglie», al trionfo del consumismo espresso da una ideologia individualista, anche all’esplosione del debito pubblico, molto prima di tangentopoli, degli scandali politici, del malaffare, della crisi dei partiti, del tramonto delle «due Chiese», la Dc e il Pci.
Dai primi anni sessanta, la nascita del centrosinistra, al 1978, la morte di Moro, piazza Fontana è una sorta di spartiacque tra la politica e il progressivo abbandono della politica. Non dimentichiamo che il 1969 fu l’anno dell’ «autunno caldo», di ripresa economica, ma anche di rivendicazioni collettive di dignità e di equità, non solo contro i ritmi massacranti della catena di montaggio ma anche per conquistare un’eguaglianza contro discriminazioni umilianti (nello stesso luogo, ad esempio, tra impiegati e operai).
Fra pochi giorni sarà un anno della scomparsa di Giorgio Bocca, narratore di quelle vicende, che in un articolo per il Giorno («La rabbia non ha salario»), scrisse a proposito di quell’operaio che aveva incontrato nei cortei e nelle assemblee: «C’è evidentemente qualcosa che nessun aumento salariale può dargli e che la lotta invece gli ha fatto gustare: un potere, piccolo ed effimero, ma un potere; la eguaglianza delle ore calde, il trattare da pari a pari con i capi, il vedere impaurita l’organizzazione». Una questione di libertà e di democrazia, si potrebbe riassumere. La bomba scoppia per intimidire, per spezzare, per rimettere ai loro posti quei «rivoltosi». Ci riuscirà? Non ci riuscirà? Qualcosa resta. Resta soprattutto se l’attentato diventa una teoria di attentati: i treni, Bologna, poi il terrorismo delle Brigate rosse.
L’ALTRA VITTIMA: GIUSEPPE PINELLI
Nella Banca Nazionale dell’Agricoltura morirono diciassette persone (quattordici subito, una novantina furono i feriti). Un altro morto di piazza Fontana fu Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico. Morì, il 15 dicembre, precipitando da una finestra della questura di Milano, in una stanza dalla quale da pochi minuti si era allontanato il commissario Calabresi che lo aveva interrogato per giorni e giorni. Non c’era indizio contro Pinelli. Unico indizio la sua «anarchia».
Di quella notte ci ha lasciato pagine indimenticabili Camilla Cederna. Un suicidio, una confessione, fecero sapere dalla questura. La pista anarchica, che avrebbe condotto all’arresto e alla incriminazione di Pietro Valpreda, era già stata individuata. Vengono i brividi rileggendo le righe con le quali il prefetto di Milano svelava i presunti colpevoli (secondo lui) in un telegramma al ministero degli Interni: «gruppi anarchici aut comunque frange estremiste». Vengono i brividi a rivedere Bruno Vespa che al telegiornale annuncia la cattura del «mostro». Pietro Valpreda, appunto.
La menzogna ufficiale su piazza Fontana veniva a confermare in un’opinione pubblica moderata il rapporto tra conflitti sociali, eversione e sinistra, seconda una teoria «ufficiale», alimentata da alcuni organi di stampa (non tutti in verità e non ad opera di tutti i giornalisti, molti dei quali anzi sentirono il bisogno di affermare anche con clamorose iniziative pubbliche il valore dell’indipendenza professionale). I processi (Il processo infame come si intitola una esemplare ricostruzione del nostro Ibio Paolucci, in un volumetto pubblicato da Feltrinelli e ormai introvabile) furono una passerella non solo di terroristi quanto di generali, ministri, ufficiali dei carabinieri, spie ed infiltrati. Il cittadino qualunque, telespettatore o lettore, avvertì l’avvilente sensazione di venire tradito giorno dopo giorno dal proprio Stato. Ad una verità si giunse: la strage fu fascista (e dei fascisti che gravitavano attorno alla cellula veneta di Ordine nuovo, con Franco Freda e Giovanni Ventura).
Della strage insomma si sa molto: le tessere che mancano sono alcune tra quelle che riguardano le responsabilità degli apparati. Ma il quadro, e cioè i colori e il significato, è perfettamente tratteggiato e raffigura il tentativo, che si ripeterà, di oltraggiare la democrazia, di respingere il protagonismo di alcuni ceti sociali, di ridimensionare le conquiste, di oscurare le riforme e di reprimere quella cultura, quanto cioè anni tumultuosi e ricchi, tra i primi Sessanta e il nostro breve Sessantotto, avevano costruito. Poi non si spense tutto, ma il cammino non si completò e non si consolidò. In quel ventennio il paese fu in grado di darsi tante riforme (dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, dal diritto di famiglia alle legge 180 alla legge per l’aborto). Lo Stato non fu in grado di riformare se stesso: piazza Fontana fu la dimostrazione di un fallimento o di una cattiva volontà, che si sarebbero manifestati nel pieno dei loro effetti qualche anno dopo. Senza più il bisogno delle bombe.
L’Unità 12.12.12

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