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"Spesa per ricerca ai minimi così l'Italia non innova più", di Rosaria Talarico

Pochi capitali, pochi brevetti, poca ricerca e sviluppo. La diagnosi di Banca
d’Italia sulla situazione delle imprese italiane è impietosa. «Le determinanti
del ritardo innovativo dell’Italia vanno ricercate in alcune caratteristiche
del sistema produttivo e finanziario privato» si legge nella relazione annuale
di Bankitalia «e nella difficoltà del settore pubblico di creare un contesto
istituzionale e regolamentare favorevole all’innovazione e di sostenere
direttamente l’attività innovativa». Inoltre il 40 per cento circa della spesa
in ricerca e sviluppo è effettuata dal settore pubblico. Una produzione
scientifica che non sfigura nel confronto con altri paesi, sebbene le nostre
strutture universitarie siano meno presenti nelle posizioni di eccellenza delle
principali graduatorie internazionali. Ma nonostante i recenti progressi, la
collaborazione tra il sistema di ricerca pubblica e il settore privato è
scarsa.

«Gli incentivi pubblici all’innovazione delle imprese hanno conseguito
risultati modesti. La loro efficacia ha risentito negativamente della
frammentazione degli interventi, dell’instabilità delle norme e dell’incertezza
sui tempi di erogazione». Un parametro per misurare l’innovazione è il numero
di brevetti. Nel 2010 le domande depositate presso l’Ufficio europeo dei
brevetti (European patent office, Epo) erano pari per l’Italia a 7,4 per 100
mila abitanti, molto meno che in Francia (13,5), Germania (26,7) e Svezia
(30,8). Il ritardo è più attenuato per i marchi e, soprattutto, per i disegni
industriali. Altro problema è la ridotta dimensione aziendale, che caratterizza
il sistema produttivo italiano nel confronto con gli altri principali paesi e
«riveste un ruolo più rilevante della specializzazione settoriale nel limitare
l’attività innovativa». Più piccola è la dimensione, più difficoltoso è
sostenere gli elevati costi fissi connessi con l’avvio di progetti innovativi;
inoltre la minore propensione all’esportazione delle piccole e medie imprese
«riduce ulteriormente l’incentivo a investire in innovazione che deriva dalla
possibilità di ripartire tali costi su un maggiore volume di vendite».

Le aziende familiari inoltre hanno un peso più elevato nell’economia italiana
rispetto agli altri principali paesi europei. Quelle a proprietà e gestione
completamente familiare rappresentano il 59 per cento del totale delle imprese
in Italia, contro il 18 in Francia e il 22 in Germania. Tali imprese si
caratterizzano per una minor propensione all’attività di ricerca e sviluppo
rispetto alla media poiché «la sostanziale coincidenza tra il patrimonio
aziendale e quello della famiglia proprietaria può ridurre la disponibilità a
intraprendere progetti rischiosi».

E poiché l’accesso al credito bancario è sempre più complicato ricorrere al
capitale azionario aumenterebbe considerevolmente l’attività innovativa delle
imprese, «l’emissione di azioni accrescerebbe in Italia la probabilità di
svolgere attività di ricerca e sviluppo di circa un terzo».

La Stampa 01.06.13