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“Se i prof si valutano così”, di Raffaele Simone

Cosa ha fatto di male l’università per meritarsi l’Ava? Non è il nome di una famosa attrice né quello di un detersivo per i panni. È la sigla (in verità un po’ sbilenca) di “Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento”, un perfido dispositivo attivato da un decreto del marzo scorso (ministro Profumo), che in questi giorni, andando in applicazione, minaccia di mettere a terra il già ammaccatissimo sistema universitario.
Inventato tempo fa dall’Anvur, l’agenzia di valutazione dell’università – criticata e temuta per la smodata ampiezza delle sue attribuzioni, la squilibrata composizione (mancano del tutto gli umani-sti), la fantasiosa stramberia dei metodi e l’imponenza dei suoi costi, – Ava dispone che i singoli corsi di studio delle università riversino telematicamente al ministero una varietà di dati. Questi sono confrontati con parametri fissati dall’Anvur, e, in base ai risultati, i corsi vengono accreditati (cioè autorizzati a funzionare) oppure no e sottoposti a valutazione periodica.
Lo scopo, apparentemente benefico, si scontra con incredibili difficoltà pratiche. Studiando il decreto si è costretti non di rado a strofinarsi gli occhi perché non si crede a quel che si legge. Anzitutto, le norme Anvur pretendono che per immettere i dati i corsi di laurea formino grappoli di comitati: “gruppi di riesame”, commissioni paritetiche, commissioni di … “gestione dell’assicurazione di qualità” (detta ovviamente Aq!)… Si istituiscono nuove figure inutili come il Responsabile di Qualità di Dipartimento, che si aggiunge ai Nuclei di valutazione di ateneo. Si suggeriscono criteri e parametri astrusi o ridicoli. Si prevedono schede tortuosissime infestate da miriadi di cifre e di sigle (come Sua “scheda unica annuale”, che si distingue in una Sua-Cds, sul corso di studio, e una Sua-Rd, sulla ricerca di dipartimento). Chi volesse capire meglio cos’è la “Sua”, troverebbe nel caotico sito Anvur la seguente sconclusionata definizione:
«una piattaforma di comunicazione “integrata” che consente di veicolare a tutti gli attori/destinatari del processo di comunicazione la medesima informazione, con un significativo vantaggio in termini di tempo, affidabilità e semplificazione dei processi informativi».
Questo pezzo di prosa dà un’idea eloquente dell’aria che tira nell’ambiente Anvur e nelle procedure Ava: gergo para-aziendale, pedagogese d’accatto, ossessione computazionale. Non stupisce allora che i parametri Anvur siano ispirati a quella pedagogia americaneggiante che infetta da decenni l’ambiente del Miur: i corsi devono segnalare, insegnamento per insegnamento, i loro obiettivi didattici, scegliendo se si punta a conferire «Conoscenza e comprensione» oppure «Capacità di applicare conoscenza e comprensione», «Autonomia di giudizio», «Abilità comunicative», «Capacità di apprendimento»… Queste etichette sono, come si vede facilmente, pure banalità che la sesquipedale dottrina Ava ingigantisce e trasforma in totem. Inoltre, tutta la procedura è di una macchinosità insopportabile: per ogni insegnamento
vanno riempite fittissime schede in cui bisogna districarsi tra cervellotiche distinzioni e indicatori numerici contraddittori.
Come è ovvio le proteste sono valanga. Già sull’Anvur e i suoi metodi si erano scaricati pesantissimi attacchi da ogni parte, in particolare a proposito dell’operazione denominata (ti pareva!) Vqr (“Valutazione qualità della ricerca”) eseguita fortunosamente, e con mille correzioni di rotta, alla fine dell’anno scorso. Ora si rovesciano sull’Ava altre bordate: si denunciano l’insensata macchinosità del marchingegno e la mortificante burocratizzazione a cui costringe, dato che obbliga i docenti a scervellarsi su maligne bislaccherie terminologiche e sulla compilazione di schede al limite del dadà. Dinanzi alle critiche Profumo esibì una totale indifferenza (uno dei suoi tratti più eminenti). L’università italiana spera ora che la nuova ministra sospenda in tronco tutta la procedura e la sostituisca con qualcosa di più semplice, sensato e amichevole, per “l’attore/destinatario” (ma chi sarà?) oltre che per i giovani e per il Paese.

da www.repubblica.it