Quanti sono i poveri in Italia? Come sono cambiati? Esiste correlazione tra povertà e disuguaglianza? Che cosa fa lo Stato per contrastare la povertà? Gli economisti mettono le mani avanti: «Dipende da qual è la soglia di consumi al di sotto della quale si viene considerati poveri». E hanno ragione. Già Carlo Cattaneo, nel 1839, scriveva sul Politecnico: «Un selvaggio si sdraja in una spelonca, va nudo alle intemperie, si nutre di ogni schifezza. Ma in seno alla civiltà, in mezzo a campagne ridenti e città sfarzose e liete, il povero deve avere un tetto, qualche suppellettile, un po’ di foco, un po’ di lume; e per essere accolto fra’ suoi simili alle opere della vita, deve mostrarsi vestito com’essi… Ora, il punto che divide questi gradi d’infortunio, varia per ogni paese, per ogni tempo, per ogni persona».
La povertà ha i volti e le storie di uomini e donne che religiosi come padre Clemente Meriggi incontrano nell’emergenza. Dal convento dell’Angelicum, a metà strada tra la Stazione Centrale e il centro di Milano, i frati francescani e 400 volontari procurano cibo, letti, vestiti, cure ambulatoriali, docce, ma anche assistenza psicologica, corsi di lingue, impegno all’integrazione sociale. Racconta padre Clemente: «Il nostro refettorio dà 1.200 pasti caldi gratuiti al giorno, più altri 250 portati a domicilio degli anziani senza mezzi e non autosufficienti e altrettanti nelle nostre altre case in città. Bussano alla nostra porta gli extracomunitari in difficoltà ma anche un numero crescente di italiani, alcune centinaia: clochard, certo, ma anche e soprattutto anziani soli, ammalati mentali, schiavi dell’alcol, ex carcerati, ex tossici e infine persone che hanno perso il lavoro o la famiglia». Separati come nuovi indigenti? «Ne vengono a decine: hanno lasciato la casa, passano gran parte del salario alla moglie e ai figli, non hanno più abbastanza per vivere. Si rifugiano da noi un paio di mesi, talvolta anche sei mesi, e intanto cercano un reddito integrativo e un po’ di fiducia in sé stessi».
I fratelli di San Francesco, la casa della Carità di don Colmegna, la Caritas nelle parrocchie affrontano l’emergenza degli ultimi. Sono tanti, ma in rapporto agli abitanti di Milano o ai 60 milioni di italiani (ogni città ha i suoi padri Clemente) possono sembrare pochi. Ma se dagli ultimi passiamo ai penultimi, che stanno male anch’essi, allora i numeri impongono una scelta politica: basta la carità cristiana, ed eroica, del volontariato, sostenuto da una modestissima spesa pubblica, o si deve impegnare di più il bilancio dello Stato?
Si è poveri solo in assoluto e si è poveri anche relativamente ad altri che stanno meglio. Povere in assoluto sono le persone che consumano beni e servizi per un valore mensile inferiore alla cosiddetta soglia della povertà. Fino al 2003 questa soglia veniva calcolata dall’Istat sulla base di medie nazionali. Da quest’anno la misurazione riprende in modo più sofisticato calcolando la soglia per 38 tipologie familiari differenziate per numero di componenti e fasce d’età e riclassificate per aree metropolitane, grandi comuni e piccoli centri nel Nord, nel Centro, nel Mezzogiorno. A dati 2007, la spesa minima mensile di un single tra i 18 e i 59 anni per non essere considerato povero in assoluto è di 724 euro nell’area metropolitana del Nord, la più cara, e di 487 euro nel piccolo comune del Sud, il più a buon mercato. Per una famiglia di tre persone, stesse zone, stessa fascia d’età, si va da 1.248 euro a 910. Il povero metropolitano (dati 2005) destina 317 euro all’affitto, 44 al riscaldamento, 177 al cibo e 137 al resto che non comprende auto, motorino, vacanze, canone tv, sanità privata, pc, cinema e nemmeno un fiore, nemmeno, insomma, l’equivalente della tazza di tè e della possibilità per la madre di occuparsi dei figlioli, i due «lussi» che Alfred Marshall considerava indispensabili al contadino o all’operaio inglese del 1890. Ebbene, nel 2007 le famiglie povere in assoluto erano 975 mila e in esse vivevano 2 milioni e 427 mila italiani.
Se consideriamo la povertà relativa, la platea si allarga. Il punto di riferimento dell’Istat è la media nazionale dei consumi di una famiglia di due persone che poi viene ridotta o aumentata a seconda delle altre tipologie familiari. Ebbene, sempre a dati 2007, il consumo di questo nucleo è pari a 1.973 euro, e per l’Istat è in stato di povertà relativa la famiglia di due individui che consumi meno della metà di quella somma, ovvero meno di 986 euro. In base a tale criterio le famiglie povere erano 2 milioni e 653 mila per ben 7 milioni e 542 mila individui. I poveri assoluti sono il 4,1% della popolazione, i relativi il 12,8% e questi rappresentano un quarto della popolazione nel Mezzogiorno, il 5,9% al Nord e il 7,2% nel Centro.
Rispetto alla storica inchiesta sulla miseria fatta dalla commissione parlamentare presieduta da Ezio Vigorelli (Psdi), vicepresidente Ludovico Montini (Dc, fratello di Paolo VI), c’è un passo avanti. Nel 1951-52 il 7,5% delle famiglie non consumava mai né carne, né vino, né zucchero, il 4,7% viveva in 4 per stanza, il 2,8% in grotte e baracche. Le famiglie misere erano un milione e 357 mila, il doppio di oggi. Su scala mondiale, il numero delle persone povere in assoluto, pur aumentando, cala in relazione al totale della popolazione, mentre aumenta la distanza tra poveri e ricchi. E qui si torna alla povertà relativa.
Povertà assoluta e povertà relativa sono concetti ambivalenti. Come ha messo in evidenza Andrea Brandolini, economista della Banca d’Italia, la Slovacchia ha una percentuale di persone a basso reddito in relazione
al reddito medio del paese inferiore al Regno Unito (a parità di potere d’acquisto, meno del 4% contro l’11%), ma il reddito medio è scarso e dunque c’è una ben poco consolante uguaglianza. Certo, il povero americano è un ricco rispetto ai poveri dei paesi poveri. Ma negli Stati Uniti, la percentuale delle persone povere in assoluto è scesa dal 22% del 1960 al 13% dei giorni precrisi mentre la soglia della povertà assoluta per una famiglia di 4 persone è crollata dal 48% al 28% del reddito mediano, che è quello di quanti si collocano al gradino di mezzo nella scala dei redditi ed è di solito inferiore al reddito medio.
La povertà, insomma, ha tanti gradi. I due che invece di consumare per 986 euro consumassero, poniamo, per 1.100 potrebbero definirsi benestanti? Del resto, le statistiche vanno approfondite. Nel 2005, le famiglie italiane hanno percepito un reddito medio annuo di 27.736 euro, diciamo 2.311 euro al mese. Ma oltre il 60% delle medesime vive con cifre assai più basse. Immaginando di dividere il totale delle famiglie per due, scopriremo che la metà dei nuclei familiari vive con meno di 1.872 euro al mese. E dentro questo universo è tra operai e impiegati, ai quali è andata una quota decrescente del valore aggiunto generato dalle imprese, che aumenta la povertà.
Vi è dunque un nesso tra povertà e disuguaglianza dei redditi e tra queste e la precarietà del lavoro. L’indice del Gini, che misura il grado di diseguaglianza tra i redditi secondo una scala da 0 (tutti hanno la stessa quota) a 1 (uno solo ha tutto), dà un quadro eloquente: le regioni con il reddito medio più alto, in particolare quelle settentrionali a statuto speciale e quelle centrali Lazio escluso, hanno anche il Gini più basso; le grandi regioni meridionali hanno meno reddito e il Gini più alto. E dunque il contrasto della povertà e della disuguaglianza non può non coinvolgere lo Stato.
L’Italia è un paese con 12,7 persone su 100 a basso reddito relativo, una percentuale tra le più alte nei paesi sviluppati. Secondo il Luxembourg Income Study, tra i paesi sviluppati più disuguali di noi ci sono il Portogallo, la Spagna, la Grecia, l’Irlanda e gli Usa, con il 17%; siamo lontanissimi non solo dai paesi scandinavi che viaggiano tra il 5,4 e il 6,8% ma anche da Francia e Germania che stanno sull’8,3%. L’economia sommersa può mitigare un po’ il quadro, non certo gli aiuti pubblici contro la disoccupazione e l’esclusione sociale, per l’alloggio e le famiglie, che sono pari ad appena l’1,7% del prodotto interno lordo, la quota più bassa della Ue, Lituania esclusa. Gli effetti si vedono. Secondo l’Osce, le persone a rischio di povertà relativa prima dei citati trasferimenti sociali sono il 28% in Svezia, il 26% in Francia e il 24% in Italia; i trasferimenti le riducono all’ 11% in Svezia, al 13 in Francia e solo al 20% in Italia. E non è con le pensioni che si compensa. Anzi. L’economista Luigi Campiglio, prorettore dell’Università Cattolica di Milano e garante del Fondo diocesano per famiglia e lavoro, avverte: «Le pensioni aiutano, ma la destinazione è casuale: sono una lotteria sociale. La verità è che lo Stato spende poco e spende male. E questo è il problema. Etico ed economico».
Corriere della Sera, 28 aprile 2009
«Combattere le diseguaglianze? Un investimento»
Quanto costa eliminare la povertà? Andrea Brandolini, studioso della Banca d’Italia, ha stimato che per portare 7,5 milioni di individui sopra la soglia della povertà relativa ci vorrebbero 6,2 miliardi di euro. Un altro economista, Massimo Baldini, dell’Università di Modena, azzarda che, per portare i 2,4 milioni sopra la soglia della povertà assoluta, ci vorrebbero 3 miliardi l’anno. Cifre troppo alte? In assoluto no. In relazione al bilancio pubblico bisogna andare a fondo. La leva fiscale, per esempio, non è semplice da usare: se si aumentasse dell’1% su tutto il reddito il prelievo fiscale per i contribuenti sopra i 70 mila euro di imponibile, lo Stato ricaverebbe solo un miliardo in più. Se si elevasse il prelievo al 3% per chi vanta oltre 200 mila euro, arriverebbe a 1,5 miliardi. Insomma, non basterebbe chiedere una maggior solidarietà obbligatoria. Si dovrebbe anche e soprattutto manovrare nella spesa pubblica modificandone un po’ le destinazioni e rendere finalmente chirurgici e non a pioggia gli interventi.
Contrastare la povertà, ridurre le disuguaglianze è una battaglia morale. Ma può essere un investimento? Per Luigi Campiglio sì. Dice l’economista del cardinal Tettamanzi: «In Svezia, dove la pressione fiscale e la spesa pubblica sono superiori rispettivamente di 5,3 e di 7,5 punti rispetto all’Italia, la produttività ha avuto un incremento maggiore non soltanto al nostro, che è pressoché nullo, ma anche a quello degli Usa, dove pressione fiscale e spesa pubblica sono poco più della metà». La Svezia è un paese piccolo. E Campiglio non lo nega. Ma la Francia, che è perfettamente paragonabile all’Italia? «La Francia mostra, sia pure con valori più contenuti, la stessa tendenza della Svezia e proprio in questi giorni torna a consumare di più, beni durevoli compresi. La paura è uguale dappertutto, ma è la rete di assicurazione per i più deboli che la combatte, non le parole. Ed è per questo che saranno i paesi con maggior coesione sociale a uscire meglio dalla crisi».
La nuova impostazione dell’Istat può consentire allo Stato di non sprecare risorse scarsissime. Per contrastare la stessa povertà al Nord ci vogliono maggiori risorse che al Sud. E questo apre una sfida nella distribuzione delle risorse pubbliche in un quadro istituzionale federalista, ma può anche giustificare il ritorno verso le gabbie salariali per chi è appena sopra le soglie della moderna miseria. In tal caso, si riproporrebbe l’antico dilemma: il salario remunera una prestazione o dà da vivere?
Dalla trincea milanese del fare, Campiglio osserva: «Le gabbie salariali, in realtà, persistono nei differenziali nell’edilizia, in agricoltura o nei piccoli servizi rispetto al Nord e nella scarsa diffusione della contrattazione integrativa. Non sarebbe meglio migliorare chi sta peggio anziché tirare al ribasso?». Un’esortazione meno buonista di quel che sembra se il primo datore di lavoro al Sud è lo Stato, spesso più generoso che al Nord. Sarà la Regione Sicilia a tagliare le retribuzioni in nome della nuova flessibilità?
M.Mucch.
Corriere della Sera, 28 aprile 2009