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“La retromarcia dei redditi fermi ai livelli di 10 anni fa”, di Bianca Di Giovanni

Si annunciano con titoloni timidi segnali di ripresa, roba da zero virgola (direbbe Giulio Tremonti). Ma la realtà è una terra desolata. Lavoratori esasperati, estromessi dal ciclo produttivo, sempre più a rischio povertà. Questa è la cronaca della crisi a fine 2009. Altro che ripresa. L’Unione europea aveva già annunciato in primavera che in Italia l’incubo subprime sarebbe costato un milione di posti di lavoro. Un prezzo altissimo, sulle spalle dei giovani precari, ma anche dei cinquantenni con famiglia a carico. Numeri così non perdonano nessuno. Anche l’ufficio studi di Bankitalia qualche mese fa lanciava l’allarme occupazione. Intervenendo al Forex di Milano il governatore Mario Draghi non ha nascosto le sue preoccupazioni.

«Nel terzo trimestre del 2008 l’insieme dei lavoratori a termine, interinali e a progetto sfiorava i tre milioni – aveva detto – Per circa quattro quinti di questi lavoratori il contratto giunge a scadenza entro un anno. Su di loro grava un rischio particolare». Quattro quinti: cioè 2 milioni e mezzo. Un esercito di precari sull’orlo del baratro. Nonostante la ripresina. Cinque mesi dopo il Bollettino di Via Nazionale confermava le preoccupazioni. Nei primi tre mesi del 2009 204mila posti sono andati in fumo rispetto all’anno prima. Di questi, 114mila sono nel Mezzogiorno. Per la prima volta dal 2005 si contrae l’occupazione femminile. Donne e giovani restano a casa. I cocopro che non si vedono riconfermare gli incarichi a inizio anno sono 107mila, i lavoratori a termine nelle stesse condizioni sono oltre 150mila. Chi è «protetto» è in cassa integrazione. Gli altri nel nostro Paese hanno solo briciole.

Come si esce? Quando e come finirà? A che punto è l’Italia? Un intervento di Antonio Misiani, deputato Pd, sul Nens (l’associazione di Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco) elabora cifre inquietanti. detto in due parole: l’Italia di oggi è tornata indietro di 10 anni, ai livelli del 1999 (unica in Europa). Per riagguantare il livello di ricchezza pro-capite del 2007 bisognerà aspettare il 2018. Il Pil generale tornerà a livelli di due anni fa nel 2015. Questo stando a elaborazioni dei numeri forniti dal Fondo monetario internazionale. «Il tempo di recupero italiano – scrive Misiani – cioè sei anni, è il peggiore tra i grandi Paesi avanzati, nettamente superiore a quello della zona euro (4 anni), per non parlare di Paesi come il Canada (2 anni), il Regno Unito (3 anni) e gli Stati Uniti (2 anni). Insomma, l’Italia resta indietro: la crisi evidentemente non è uguale per tutti.

D’altronde da noi la recessione è iniziata prima che altrove. Nel terzo trimestre del 2008, tre mesi prima del Giappone e sei mesi prima della zona euro e delle altre grandi economie. «Questi numeri – continua Misiani – smentiscono l’ottimismo di facciata di chi racconta che l’Italia ha retto meglio degli altri e che il peggio è alle nostre spalle». Il governo italiano ha investito meno degli altri nelle misure anticrisi. L’argomento è forte e convincente: abbiamo un bilancio già disastrato. Dobbiamo risparmiare. Fosse vero. In realtà non si spende e i conti peggiorano. Nel 2009 le entrate diminuiranno di quasi 12 miliardi (lo dice il Dpef). Un calo «non interamente attribuibile alla crisi» osserva Misiani. Il crollo dell’Iva ha una portata nettamente superiore alla riduzione dei consumi. Lo Stato incassa meno e spende di più. La spesa primaria sfora di almeno 20 miliardi rispetto alle stime di inizio anno. Eppure le risorse destinate ai pacchetti anticrisi superano di poco i 5 miliardi. Gli altri dove sono andati a finire?

L’Unità, 8 settembre 2009