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"Una manovra contromano", di Manuela Ghizzoni

Intervento dell’on. Ghizzoni sulla manovra economica in discussione alla Camera

Signor Presidente, da qualche giorno alcuni docenti e ricercatori hanno posto in calce alle proprie e-mail la dichiarazione che il Ministro Gelmini pronunciò per commentare la manovra il giorno stesso della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
La Ministra Gelmini disse: «È una manovra coraggiosa e indispensabile per contenere la spesa, una manovra che garantisce equità, sviluppo e crescita, le promesse del Presidente Berlusconi sono state confermate; sono stati tutelati i ceti deboli, non ci sono tagli per pensioni, sanità e scuola, non ci sono tagli per i centri di ricerca e per il fondo per l’università; le infrastrutture del sapere del nostro Paese sono state salvaguardate».
La scelta di questi docenti e ricercatori è quella, quindi, di poter avere sempre sotto gli occhi, quando lavorano al personal computer, la distanza siderale tra gli annunci di chi ha responsabilità politica di un Dicastero e la deludente realtà della sua incoerente azione.
Con questa dichiarazione il Ministro ha voluto lanciare un messaggio rassicurante, ma infondato, sugli effetti della manovra sui comparti di sua competenza: scuola e università e ricerca.
Evidentemente il Ministro deve aver pensato che è sufficiente la propria parola per convincere che la manovra contiene, davvero, misure di crescita e di equità e non danneggia – come dice la Ministra – le infrastrutture del sapere. Tuttavia, la manovra raccontata dal Ministro non esiste; la realtà è un’altra, scritta nero su bianco, e consegna agli italiani una manovra priva di interventi organici per il futuro nella quale è assente il tratto dell’equità, e che si abbatte sulle retribuzioni dei lavoratori del pubblico impiego come un vero ciclone, e non lascia indenni nemmeno le pensioni perché, a differenza di quanto sostiene il Ministro, la manovra predispone una riforma del sistema previdenziale senza che se ne sia discusso con i cittadini e le parti sociali, come poco fa ha spiegato l’onorevole Damiano.
La collega Coscia, che mi ha preceduto, ha descritto quanto accadrà al comparto scuola e, quindi, mi concentrerò sull’università e sulla ricerca.
Il Ministro sostiene che non sono stati previsti tagli agli enti di ricerca. In effetti sono proprio gli enti di ricerca ad essere stati tagliati ed accorpati ad altre strutture. Si tratta di enti come l’ISPES, gli AES, l’ISAE, l’EM, l’ENS, le stazioni sperimentali dell’industria, l’INCA, l’INSEAN, che non sono sottoposti alla vigilanza del MIUR, ma questo non è un motivo sufficiente perché il Ministro ignori e non stigmatizzi una scelta priva di senso.
Una scelta che determinerà l’interruzione dell’attività di ricerca portata avanti, di solito, in equipe, che pregiudicherà la partecipazione ai programmi europei, disperderà un patrimonio di competenze e un know-how di conoscenze stratificate nel tempo.
La soppressione e l’accorpamento degli enti di ricerca comporta risparmi davvero risibili, come dice la relazione tecnica, e, pertanto, queste misure hanno più il sapore di un vero e proprio attacco al sistema della ricerca pubblica e libera, come attesta in modo esemplare il caso dell’ISAE.
L’ISAE si è sempre occupato di analisi economiche, e lo ha fatto con l’autonomia scientifica e il rigore tipico della ricerca, forse è per questo che recentemente le sue analisi sono risultate sgradite al Ministro Tremonti e, forse, è per questo motivo che le funzioni e le risorse dell’istituto sono state assegnate al Ministero dell’economia e all’ISTAT.
L’intervento sugli enti di ricerca non pare quindi guidato dalla necessità di risparmiare, bensì dalla volontà di comprimere l’autonomia operativa che ne ha caratterizzato fino ad ora l’operato.
Negli enti di ricerca e nelle università lavoro persone, anzi, sono fatti di persone che reggono, sulle proprie spalle, il sistema pubblico della ricerca e del trasferimento della conoscenza; per il Governo, forse, il problema sta proprio qui, nell’appartenenza al sistema pubblico. Del resto, il tratto iniquo della manovra è chiarissimo se pensiamo allo scippo che la stessa dispone a danno delle retribuzioni dei dipendenti della pubblica amministrazione.
Si tratta di una scelta unilaterale ed autoritaria del Governo, che non ha sentito nemmeno il bisogno di imbastire un simulacro di concertazione per condividere la necessità di un patto sociale giustificato dalla crisi.

Il Governo ha scelto, invece, la strada di frugare nelle buste paga dei lavoratori del pubblico impiego, mentre si è guardato bene dall’intervenire sui capitali e sui patrimoni dei cosiddetti «paperoni». Si tratta di un modo irresponsabile di procedere che enfatizza il tratto ingiusto della manovra, fonte di inevitabili tensioni sociali. Ma il Governo attacca il pubblico impiego anche per un altro motivo, ossia per dare una plastica manifestazione al proprio pregiudizio verso ogni segmento del sistema pubblico quali scuole, università, ricerca e sanità, che costituiscono gli ambiti in cui la Costituzione si fa materiale e in cui diritti di cittadinanza diventano esigibili.
Vengo ora alle misure che riguardano il sistema universitario e della ricerca. Per i ricercatori, i tecnologi degli enti di ricerca e i dipendenti contrattualizzati dell’università è previsto il congelamento per tre anni, dal 2011 al 2013, delle retribuzioni all’importo percepito nel 2010. È previsto, poi, il blocco dei contratti collettivi nazionali fino al 2013, senza possibilità di recupero. Come il congelamento della retribuzione, anche questa è una misura del tutto inaccettabile, che porta ad una perdita netta e consistente delle retribuzioni. Per i lavoratori contrattualizzati dell’università le stime computano una sottrazione annua che va dai 1.200 euro ai 2.100 per le categorie più alte. Negli enti di ricerca per i lavoratori inquadrati tra il quarto e l’ottavo livello la perdita media va dai 1.400 euro ai 1.070 euro, mentre per i ricercatori e i tecnologi si va dai 1.700 euro ai 5.100 euro, secondo i diversi livelli e le varie fasce di appartenenza.
Altrettanto inaccettabile appare il blocco, per il triennio 2011-2013, degli adeguamenti stipendiali per i professori e per i ricercatori universitari senza possibilità di recupero, che determina la perdita media complessiva nel triennio da cinquemila a duemila euro, a seconda del ruolo e delle classi stipendiali. Bisogna tener conto del fatto che la perdita si trascinerà per tutta la carriera e andrà, di fatto, ad incidere per sempre sulle curve retributive. Ma la conseguenza che più deve attrarre la nostra attenzione è che tali perdite sono particolarmente pesanti perché avvengono all’inizio della carriera, in quanto il blocco colpisce con più durezza proprio gli stipendi più leggeri. Infatti, un ricercatore, non ancora confermato e al primo livello stipendiale, perde fino al 32,7 per cento all’anno. Pertanto, mi chiedo se davvero secondo il Ministro Gelmini questa norma si ispira a quell’equità invocata nella sua dichiarazione? Eppure, si poteva fare davvero meglio e non punire i ricercatori e i docenti con poca anzianità. Lo abbiamo scritto in un nostro emendamento che, ovviamente, non è stato preso in considerazione.
Il blocco poi inibisce l’interpretazione premiale degli scatti stipendiali previsti dalla legge n. 1 del 2009, che pure era stata sostenuta dal Ministro Gelmini, la quale non manca mai, almeno a parole, di invocare la valorizzazione del merito. La manovra, quindi, fa ostruzionismo all’applicazione di norme volute e sbandierate come emblema del Governo e della sua capacità di fare e di premiare il merito. Non è un paradosso ma il frutto di chi ha seminato propaganda. A questo proposito segnalo che al Senato è in discussione – e lo ha richiamato la collega Sereni – il disegno di legge Gelmini sull’università che a parole ha l’ambizione di intervenire sul sistema, valorizzando la valutazione. Ora non entro nel merito del disegno di legge Gelmini, lo farò a tempo debito, ma è vero che il blocco degli scatti stipendiali, insieme ad altre misure comprese in questa manovra su cui mi soffermerò, dimostrano la velleità dell’intervento di riforma che non è supportato da adeguate risorse.
Ma torno ai colpi che la manovra batte sui lavoratori della conoscenza. Tra questi vi è la previsione che nel triennio 2011-2013 le progressioni di carriera e i passaggi verticali non comporteranno alcun giovamento economico ed avranno effetti soli ai fini giuridici. Lo scenario descritto, quindi, è un corposo elenco di perdite nette di retribuzione, di norme odiose ed inique, lesive di diritti, imposte per decreto come se si intervenisse sui sudditi e non sui cittadini. Non mi meraviglia ma mi preoccupa che il Ministro Gelmini nulla abbia da eccepire nei confronti di misure vessatorie che esprimono un chiaro pregiudizio nei confronti di chi oggi tiene in piedi la ricerca e la trasmissione del sapere, cioè di coloro che assolvono ad una funzione pubblica fondamentale per il progresso del Paese. È il segno inequivocabile che insieme allo status sociale del ricercatore e del docente si vuole deprimere e pregiudicare la funzione pubblica da loro assolta.
Ma il Governo non si accanisce solo contro coloro che già lavorano negli enti di ricerca e negli atenei, ma interviene pesantemente anche contro chi ha titoli e legittime aspettative per entrare a far parte della comunità scientifica.
La manovra non lesina, infatti, rigidi vincoli per l’ingresso negli enti di ricerca, poiché per il prossimo triennio limita le assunzioni al 20 per cento delle risorse derivanti dai pensionamenti, fermo restando che non si superi il limite dell’80 per cento delle proprie entrate per spese di personale.
È un netto peggioramento rispetto al regime ora vigente. Siamo di fronte, cioè, a un blocco sostanziale del turnover che determinerà la riduzione di circa mille unità rispetto agli attuali 18 mila ricercatori e tecnologi. Così, mentre altri Paesi investono fortemente nel personale di ricerca in Europa come gli Stati Uniti, la Cina, l’India e il Brasile noi, che già siamo fanalino di coda per numero di ricercatori rispetto alla popolazione attiva, riduciamo ulteriormente la possibilità per i giovani di mettere il proprio talento al servizio della ricerca pubblica per l’innovazione e lo sviluppo del Paese che li ha formati.
Per l’università resta in vigore la previsione di un turnover al 50 per cento delle spese del personale cessato dal servizio, fermo restando che la spesa per il personale non superi il tetto del 90 per cento del fondo di finanziamento ordinario (50 per cento, 90 per cento: è una numerologia complessa). Negli ultimi due anni, complice la costante riduzione del fondo di finanziamento ordinario e la modifica delle norme di valutazione comparativa introdotta dalla legge n. 1 del 2009, ha avuto l’effetto deleterio di chiudere letteralmente le porte in faccia ai giovani, bloccando di fatto anche la copertura dei posti da ricercatore (definiti posti Mussi) ed impedire la progressione della carriera a chi è già dentro all’università.
Si tratta di una politica ottusa che per miope contabilità non permette di compensare i pensionamenti dall’università e dagli enti di ricerca, peraltro accelerati dalle disposizioni della manovra. Non si rallegrino troppo i Ministri Gelmini e Tremonti per quanti hanno affrettato il pensionamento pensando al minor fabbisogno di risorse per il personale; dovrebbero, piuttosto, preoccuparsi del fatto che il combinato disposto dell’accelerazione dei pensionamenti, abbinata al blocco del turnover che impedisce l’immissione di giovani talenti, determinerà un deprecabile depauperamento di competenze e sapere.
Ma davvero pensiamo di poter riagganciare la crescita e lasciarci alle spalle la crisi con il blocco del turnover, cioè senza investire nelle risorse umane per la ricerca di base e applicata e senza mettere i ricercatori nelle condizioni di svolgere il proprio lavoro con budget adeguati e programmabili e con la tranquillità di un incarico non a termine attribuito con valutazione dei meriti scientifici?
È ben vero che le cronache di questi giorni portano alla ribalta la vicenda di una giovane donna che nella stessa seduta di laurea triennale ha ricevuto un’offerta per salire in cattedra. Si tratta di un episodio che non appaga il diffuso desiderio di veder premiare il talento dei giovani ricercatori, perché molti elementi fanno ritenere che l’offerta sia legata più al cognome della giovane che alla sua maturità scientifica. Piuttosto, è un episodio dell’Italia di oggi che magnifica il potere come grimaldello per spalancare le porte alla carriera universitaria ben più efficacemente dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche e ci impone di riflettere sulla funzione pubblica che gli atenei non statali svolgono nell’ambito della ricerca e della trasmissione del sapere e ancora più ci impone di riflettere sui requisiti etici che sostanziano questa funzione.
Ma per una giovane donna alla quale viene offerta una cattedra sono migliaia quelli che fino ad oggi hanno partecipato alla comunità scientifica da precari, senza diritti e senza tutele. La manovra ha in serbo una sorpresa anche per questi lavoratori: non si tratta, però, di un posto fisso a seguito di una severa valutazione. Questo capiterebbe in un Paese normale; si tratta, invece, del taglio della spesa del 50 per cento per attivare contratti a tempo determinato e di collaborazione coordinata e continuativa da pagare sui fondi di finanziamento ordinario; è una misura deprecabile, depressiva per i livelli occupazionali e per l’attività accademica.
Nell’università si contano 650 contratti a tempo determinato, 1.200 assegnisti e un numero superiore di Cococo e borse di studio, in gran parte a valere sul fondo di finanziamento ordinario. A questi bisogna aggiungere le docenze a contratto. Dal prossimo anno alla metà di questi ricercatori non sarà quindi rinnovato il contratto, con conseguenze gravi sul loro futuro professionale e personale, nonché sul funzionamento delle università stesse che rischiano il depauperamento delle attività di ricerca e della didattica perché ad esse contribuiscono sempre più frequentemente i precari.
Impedire l’attivazione di contratti a tempo determinato non è la strada per contrastare il precariato nelle università che deve essere superato a fronte del talento e del valore con un contratto stabile che preveda tutele e diritti.

Anche gli effetti della norma «taglia precari» riverberano sul disegno di legge Gelmini una luce sinistra, in particolare per quanto riguarda la nuova figura di ricercatore in «tenure-track», cui saranno attivati i contratti a tempo determinato a valere sul Fondo di finanziamento ordinario.
Il combinato disposto della decurtazione dei contratti e l’aumento della retribuzione dei ricercatori in «tenure-track», come previsto dal disegno di legge Gelmini, determineranno un taglio sul numero di posizioni attivabili di circa il 66 per cento. Peraltro, tenuto conto che nel 2009 erano presenti nelle università 652 ricercatori a tempo determinato, un taglio del 66 per cento significa che, a regime, cioè dal prossimo anno, potranno essere attivati per tutto il sistema universitario 210 contratti. Un numero risibile che dimostra come la società della conoscenza sia, per il nostro Paese, una meta irraggiungibile.
Così come il blocco degli scatti stipendiali, anche lo sbarramento al turnover e la decurtazione dei contratti a tempo determinato dimostrano la velleità del disegno di legge Gelmini, che avrà l’effetto quindi di bloccare per anni il reclutamento nelle università italiane se non interverranno importanti modifiche in ordine alle risorse, oltre che alle previsioni ordinamentali.
Il Ministro Gelmini, nella sua dichiarazione, ha fatto riferimento all’assenza di tagli al Fondo di finanziamento ordinario per rivendicarlo come un elemento positivo della manovra. A me viene da fare un’altra considerazione: ci mancherebbe altro che ci fosse un altro taglio al Fondo di finanziamento ordinario, dato che – vi informo, signori – per il prossimo anno al Fondo mancano un miliardo 300 milioni di euro.
Come è stato confermato in quest’Aula dal Ministro Vito, in risposta ad una nostra interpellanza urgente, mancano per il prossimo anno i 400 milioni recuperati dallo scudo fiscale, i 550 milioni previsti nel triennio 2008-2010 dal Patto Mussi-Padoa Schioppa per l’università ed i 476 milioni sottratti al Fondo di finanziamento per poter permettere l’esenzione ICI ai redditi medio alti. Il decreto-legge n. 93 del 2008 rappresenta un capolavoro di questo Governo appena insediato, un furto ai danni dell’università a vantaggio dei ceti abbienti.
Che il Fondo di funzionamento ordinario stia soffrendo una deplorevole e drammatica carenza di risorse per i prossimi anni è noto a tutti, anche il Governo ne è consapevole, tanto che nei giorni precedenti il varo della manovra era insistentemente circolata la notizia dell’attribuzione al Fondo di finanziamento di 700 milioni di euro per compensare parzialmente i tagli previsti per il prossimo biennio. Purtroppo, nel testo definitivo questa norma non c’è, e allora agli studenti che frequentano l’università, ai ricercatori precari che aspettano un concorso che tarda ad arrivare, ai docenti la cui retribuzione è tartassata dalla manovra e anche a me sorge una domanda: perché le quote latte sì e le risorse per l’università no? Si tratta di scelte politiche che il Governo Berlusconi non vuole evidentemente assumere a vantaggio della conoscenza e del sapere, mentre altri Paesi investono con forza proprio in questi settori.
Con questa finanziaria, quindi, il Governo persevera nella politica delle sottrazioni di risorse al sistema universitario, già condotta nei due anni di legislatura e che proseguirà senza tentennamenti nel prossimo triennio, con la conseguenza di mettere a repentaglio, già per il prossimo anno, l’erogazione delle spese fisse per il personale, oltre che la stessa funzionalità degli atenei. Il sistema universitario è appesa ad un filo che questa manovra non vuole affatto rafforzare ma, al contrario, si dispone a tagliarlo. Siatene consapevoli. Peraltro, il sistema universitario sconta, oltre alla carenza di risorse, l’assoluta inefficienza nel distribuire i finanziamenti a disposizione.
Non so se ne siete a conoscenza, ma vi voglio dire che il riparto del Fondo di finanziamento ordinario non è ancora avvenuto e siamo alla fine di luglio. Che cosa vogliamo dire poi dei
PRIN? Non sono ancora stati distribuiti quelli del 2008, mentre per il 2009 siamo ancora e solo alla nomina dei garanti. E così, mentre la crisi internazionale avanza e gli altri Paesi, in generale, l’affrontano con investimenti massicci in innovazione, la ricerca italiana è bloccata dall’inefficienza ministeriale nel distribuire le poche risorse disponibili. Questo è il capolavoro del Governo del fare.
Avrei voluto soffermarmi un attimo sui tagli alle missioni, perché mi sembra veramente una norma senza senso e ottusa. Come pensiamo di poter davvero affrontare progetti di ricerca europei e internazionali senza le risorse per le missioni? Evidentemente questa è proprio la norma che esemplifica la mancanza di lungimiranza di questa manovra che confonde il rigore con i tagli lineari, l’investimento con la spesa.
Mi avvio a concludere. L’assenza di un processo di crescita e di sviluppo in grado di dare futuro al Paese attraverso interventi strutturali è proprio il tratto distintivo di questa manovra. Come Partito Democratico abbiamo, invece, avanzato proposte in questo senso come il rifinanziamento del Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica che, al contrario, il Governo nella precedente finanziaria ha completamente azzerato, e l’attivazione dei crediti d’imposta per investimenti in ricerca a vantaggio delle piccole e medie imprese.
Ho concluso, signor Presidente, non prima di aver detto che ciò che manca a questa manovra è proprio il futuro, soprattutto perché è una manovra che non crede e non investe nell’istruzione, nella formazione e nel sapere che – lo voglio ricordare in conclusione – è un bene pubblico e una pubblica responsabilità. Quindi, questa manovra deprime la possibilità che tutti noi e soprattutto i giovani possano contribuire al futuro del Paese. Lo denunciamo con nettezza e preoccupazione e lo abbiamo fatto anche due anni fa in occasione dell’approvazione del decreto-legge n. 112 del 2008 (la manovra estiva del 2008). Fummo inascoltati allora e lo siamo oggi, ma non mi arrendo e, anche se incombe la fiducia e il tempo è scaduto, continueremo in ogni occasione a denunciare che tagliare il sapere significa tagliare la speranza e la crescita di questo Paese e non vi permettiamo di farlo a nostro nome (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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Di seguito l’intervento dell’On Maria Coscia

Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor sottosegretario, in primo luogo voglio ribadire ciò che hanno già detto altri colleghi del gruppo. Il Partito Democratico non ha mai messo in discussione la necessità e l’urgenza della manovra economica, ma quello che abbiamo contestato sono i suoi contenuti e, soprattutto, il fatto che l’impianto di questo provvedimento è fortemente contrassegnato da scelte inique e recessive. È una manovra che scarica sui più deboli, sui lavoratori precari, sul pubblico impiego, sul lavoro dipendente e, per quanto riguarda le istituzioni, soprattutto sugli enti locali e sulle regioni, ossia sui servizi sociali, sanitari, scolastici, sui trasporti, sui tagli della spesa e che impoverirà il Paese da ogni prospettiva di crescita e di sviluppo. Tra i più penalizzati ci saranno i ragazzi e le ragazze italiani.
I dati ci dicono che, già nel 2009, il 63 per cento dei posti di lavoro persi riguarda lavoratori con contratto a tempo determinato, collaboratori a progetto, cioè lavoratori precari per lo più ragazzi e ragazze. Nella fascia di età tra i 19 e i 29 anni, la perdita degli occupati ha raggiunto le trecentomila unità, portando così il tasso di disoccupazione giovanile in Italia al 25,4 per cento, una percentuale che è più del triplo del tasso di disoccupazione nazionale, molto al di sopra della media europea. Abbiamo inoltre il primato negativo europeo della dispersione scolastica che si attesta intorno al 25 per cento.
I dati OCSE-Pisa ci consegnano altresì dati allarmanti sia sui livelli di apprendimento dei nostri ragazzi quindicenni in particolare sulla matematica e sulla lingua. Secondo l’ultimo rapporto dell’ISTAT dal 1983 ad oggi si sono triplicati i ragazzi tra i 30 e i 34 anni che vivono con i genitori a testimonianza di una perdita di autonomia ma anche di una perdita di fiducia senza precedenti nelle giovani generazioni italiane. A questi dati sulla drammatica condizione femminile si aggiungono i dati negativi che riguardano l’occupazione femminile tra i più bassi d’Europa. Abbiamo invece il primato del tasso di invecchiamento più alto d’Europa.
Questi dati in sintesi ci dicono che siamo di fronte ad un Paese sempre più invecchiato senza mobilità sociale che non investe sul proprio capitale fondamentale, quello umano e, in particolare, su quello più innovativo e creativo, sulle intelligenze e sui talenti dei giovani e delle donne e per questo motivo rischia seriamente un declino irreversibile. Non c’è una misura positiva in questa manovra che riguarda le giovani generazioni, le donne e la famiglia. È una manovra difensiva ripiegata sull’oggi e che non è diretta a costruire una nuova prospettiva per il futuro dell’Italia. La crisi con le sue negatività poteva costituire anche un’occasione per affrontare quelle riforme strutturali necessarie per migliorare i fondamentali del Paese. Con una manovra più coraggiosa e ambiziosa si poteva fare appello alle migliori energie del Paese e a tutti gli italiani e le italiane che avrebbero compreso il senso di sacrifici necessari per il bene comune, purché equamente distribuiti e finalizzati a superare da un lato l’emergenza e dall’altra a costruire un Paese migliore più competitivo con una nuova prospettiva di crescita e di sviluppo.
La manovra è invece indifferente alle necessità del Paese e fa emergere chiaramente l’incapacità e lo stato di confusione del Governo nella gestione della finanza pubblica e l’assenza di qualsiasi politica economica anticiclica in grado di sostenere le famiglie e il sistema produttivo. Nell’articolato della manovra non vi è traccia di misure di carattere strutturale che garantiscano un duraturo risanamento dei conti pubblici. In particolare alcuni interventi hanno un effetto depressivo sui consumi e riducono la capacità di risparmio delle famiglie, altri hanno un impatto negativo sulle capacità di investimento.
La manovra è recessiva perché aggredisce e depotenzia il fattore fondamentale alla base della crescita economica dei sistemi produttivi e soprattutto tutto il sistema della cultura, della conoscenza e dei saperi. Ancora una volta, come già avvenuto due anni fa con il decreto-legge n. 112, il Governo colpisce mortalmente la scuola, l’università, la formazione, la ricerca e l’innovazione che al contrario dovrebbero essere i motori del rilancio dell’economia e della crescita. Ancora una volta, diversamente da quello che sta avvenendo negli Usa e in altri Paesi europei, il Governo deprime il sistema di istruzione e formazione. Ad esempio, la Germania all’interno di una manovra rigorosissima ha inserito misure di potenziamento dello studio, della formazione e della ricerca introducendo tra l’altro un vincolo per i länder del 10 per cento della spesa destinati a questo fine. In Italia, invece, la manovra colpisce i lavoratori e le lavoratrici del settore mentre inventa la «mini-naja» sprecando 20 milioni di euro che sarebbero al contrario preziosi se investiti nel sistema dell’istruzione per elevare la qualità dell’educazione e della formazione dei nostri giovani e dunque per il futuro del nostro Paese.
Il Presidente del Consiglio fino a poche settimane fa ripeteva ai cittadini e alle imprese che la crisi economica era solo alle nostre spalle, che era soprattutto psicologica, che non erano necessari ulteriori interventi per la tenuta dei conti pubblici, per il sostegno dei consumi e della produttività. Tutte le critiche e le preoccupazioni avanzate dal Partito Democratico venivano respinte e bollate di catastrofismo, di pessimismo e di antitalianità. Purtroppo per il nostro Paese la realtà dei numeri e le recenti vicende di questi giorni ci hanno dato ragione e testimoniano che al contrario le preoccupazioni espresse nei mesi scorsi erano fondate.
Non è credibile la tesi che il Ministro Tremonti sta sostenendo per giustificare le sottovalutazioni e i ritardi con cui la crisi è stata affrontata e cioè i fatti contingenti come la speculazione che ha colpito la Grecia e la crisi dei mercati internazionali. Gran parte delle responsabilità è del Governo e della sua ostinata volontà di dipingere una situazione economica e di bilancio assai diversa dalla realtà. Così come nell’aver incoraggiato l’evasione fiscale cancellando i provvedimenti positivi assunti in tale direzione dal precedente Governo. La manovra fa pagare il conto di una gestione superficiale e inadeguata della politica economica e della finanza pubblica del Paese soltanto ad una parte dei cittadini e più che altro ai lavoratori precari, ai giovani, alle donne e ai dipendenti pubblici e ai lavoratori prossimi al pensionamento e alle autonomie locali.

Per quanto riguarda in particolare l’istruzione pubblica, l’Italia che uscirà dalla crisi sarà più debole, con una generazione di giovani fortemente deprivata di qualità nella sua formazione e quindi con un grave deficit di conoscenze rispetto ai coetanei degli altri Paesi. Già l’ISTAT ha conteggiato in due milioni i giovani che non studiano, non si formano e non lavorano. Ci troviamo dunque di fronte ad un peso sociale ed economico insopportabile per il nostro Paese.
La manovra altresì non interviene sul sistema produttivo e ci consegna un’Italia senza un chiaro indirizzo di sviluppo industriale, con un tessuto produttivo ridimensionato dalla crisi, in particolare nella componente delle piccole e medie imprese, priva di adeguate risorse finanziarie e di credito, esposta alla concorrenza sempre più aggressiva non solo dei concorrenti tradizionali, ma anche dei nuovi Paesi emergenti, con un mercato del lavoro indebolito e privo di adeguati strumenti di sostegno e riqualificazione per i soggetti che perdono l’occupazione e con una forte distorsione nella distribuzione della ricchezza, a discapito delle fasce più deboli della società.
Nella manovra non vi sono misure per affrontare e contrastare la dinamica di medio periodo prevista per la nostra economia, che è molto modesta e del tutto inadeguata ad affrontare le sfide del nuovo scenario globale e soprattutto a contenere l’aumento dei disoccupati già registrato e previsto per tutto il 2010. Anche i lavoratori della scuola pagano un prezzo carissimo in termini di disoccupazione, a seguito dei provvedimenti già assunti dal Governo e voluti con il decreto-legge n. 112 dal Ministro Tremonti e sostenuti dalla Ministra Gelmini: circa 8 miliardi di tagli alla spesa e oltre 132.000 posti di lavoro in meno. Il sistema scolastico italiano è stato gettato dal Governo in una situazione di estrema precarietà e fragilità, non solamente per l’insopportabile riduzione di risorse destinate determinata dalle ultime finanziarie, ma anche per l’incertezza e la confusione di provvedimenti non preceduti da un periodo di costruzione condivisa con il Parlamento e con il mondo della scuola; penso ai contenuti del cosiddetto piano programmatico ed ai regolamenti attuativi che ne sono seguiti, il cui segno dominante è quello meno, meno, meno: meno ore di scuola, meno discipline, meno docenti e personale non docente, meno tempo pieno, meno tempo prolungato, meno ore di laboratorio, meno inclusione dei bimbi migranti, meno attenzione verso i bambini diversamente abili e verso i bambini in condizioni sociali ed economiche disagiate.
Siamo a fine luglio e non si è ancora proceduto all’attribuzione definitiva degli organici del personale alle istituzioni scolastiche, in particolare sulle classi a tempo pieno nella scuola primaria e sulle scuole superiori. Le iscrizioni alle prime classi delle scuole superiori, invece che a gennaio sono state effettuate a marzo, in una situazione di profonda incertezza circa l’offerta formativa e i programmi didattici che potranno essere attivati nel nuovo anno scolastico. È del tutto evidente che il nuovo anno scolastico che inizierà a settembre sarà purtroppo segnato negativamente da questi gravi ritardi, inadempienze e confusione che peseranno sul diritto allo studio di milioni di bambini e di ragazzi e sulle loro famiglie.
Nella manovra si prevedono misure assolutamente inaccettabili per il personale della scuola: si va dal blocco dei contratti e degli scatti di anzianità al congelamento degli stipendi, con l’obiettivo, secondo quanto riportato dalla relazione tecnica, di un risparmio di spesa superiore al miliardo di euro nel triennio 2011-2013. In particolare si prevede che gli anni 2010, 2011 e 2012 non siano utili ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali e dei relativi incrementi economici previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti. Il blocco degli automatismi stipendiali rappresenterà una notevole perdita in termini economici a regime e per sempre, nel senso che gli effetti si trascineranno negli anni, determinando la modifica delle curve retributive. Si tratta di cifre rilevanti, che vanno ben oltre gli aumenti non ancora ottenuti per i rinnovi contrattuali: alcuni studi hanno quantificato la perdita in 1.823 euro l’anno per un docente di scuola elementare a metà carriera, con un reddito di 23.000 euro l’anno lordi e in 753 euro l’anno per i collaboratori scolastici. L’effetto cumulativo di queste misure sull’arco dell’intera carriera sarà particolarmente penalizzante.
In questo scenario non può essere poi dimenticato l’effetto del blocco sulla contribuzione pensionistica, particolarmente per chi matura il diritto alla pensione nel nuovo regime. Inoltre, al danno del blocco degli automatismi per il comparto scuola si somma il blocco dei contratti collettivi nazionali fino al 2013, senza possibilità di recupero. Questa norma comporterà una perdita media complessiva a fine triennio di circa 1.500 euro.
Per i lavoratori della scuola, l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale viene rinviata al 2012: la manovra sottrae 420 milioni di euro, già postati in bilancio, che verranno, pertanto, rideterminati e diminuiti. Gli anni 2010-2011-2012 non saranno utili neanche ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali e della retribuzione professionale dei docenti, nonché degli incrementi retributivi. Altresì, la carriera del personale viene allungata di tre anni e, fino al 2013, il servizio non è valido neanche ai fini giuridici.
Negli anni 2011-2012-2013, il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifiche dirigenziali, ivi compreso il trattamento accessorio, non potrà superare quello ordinariamente spettante per l’anno 2010. Le voci del salario accessorio, fisso e continuativo, non saranno certe dal 2013.
Le risorse finanziarie vengono automaticamente ridotte in misura proporzionale al numero di personale in servizio e, per effetto dei tagli e dei pensionamenti, una parte di risorse, definite contrattualmente e destinate alla contrattazione integrativa, verrà incamerata dal Ministero dell’economia e delle finanze. A tutto questo, si aggiunge l’elevamento a 65 anni dell’età pensionabile, che riguarderà e colpirà centinaia di migliaia di insegnanti, insieme a tutte le lavoratrici del pubblico impiego.
In questo quadro, la Ministra Gelmini ha più volte negato che con questa manovra vi sarebbero state ulteriori misure penalizzanti sul personale della scuola, segnalando, come risposta positiva in tal senso, la modifica apportata al Senato al testo del decreto-legge. Si tratta della norma che, almeno, lascia nella disponibilità del settore scolastico il risparmio del 30 per cento conseguito con i tagli operati con il decreto-legge n. 112 del 2008 e finalizzato a premiare il merito e lo sviluppo professionale dei docenti e del personale ATA. Per tali risorse, il decreto approvato dal Consiglio dei ministri imponeva un cambio subdolo di destinazione per ripianare i debiti pregressi e finanziare le spese ordinarie delle scuole. Dunque, spese obbligatorie.
La nuova formulazione approvata non dà, comunque, alcuna garanzia circa il recupero delle misure penalizzanti previste sugli stipendi dei lavoratori della scuola. Anche con la nuova formulazione, dunque, si sancisce, in ogni caso, uno scippo: o degli scatti stipendiali, che erano previsti dal contratto, o dei debiti delle scuole, che erano, comunque, da pagare, o del reinvestimento di questi fondi per il miglioramento e la valorizzazione del merito, come era stato promesso e previsto dal decreto-legge n. 112 del 2008.
Sono, poi, particolarmente gravi, anche sotto il profilo etico, le disposizioni che ridefiniscono la procedura di individuazione degli alunni in situazioni di handicap e il riconoscimento del diritto di tali alunni al docente di sostegno. La norma, in particolare, prevede, per l’anno scolastico 2010-2011, un contingente di docenti di sostegno pari a quelli in servizio nell’organico di fatto dell’anno scolastico 2009-2010, a prescindere dal numero di alunni in situazioni di handicap che ne avrebbero il diritto. Il limite imposto all’organico dei docenti di sostegno vanifica, di fatto, la sentenza della Corte costituzionale n. 80 che, nel febbraio scorso, aveva stabilito l’illegittimità costituzionale della norma che fissava il limite massimo al numero dei posti degli insegnanti di sostegno.
Alle misure punitive operate sul personale, si aggiungono gli ulteriori tagli al Ministero, in particolare, alla missione n. 22 «Istruzione scolastica», per un ammontare superiore a 190 milioni di euro nel triennio, con le conseguenti ripercussioni negative sul funzionamento delle scuole.
Noi non ci limitiamo a criticare la manovra: con i nostri emendamenti abbiamo avanzato una vera e propria proposta alternativa basata su tre pilastri fondamentali. Primo: il fisco. Come ho già detto, noi pensiamo che la crisi sia anche un’occasione per avviare riforme strutturali, alcune a costo zero, altre volte a produrre maggiori entrate per lo Stato. Tra queste, è possibile e necessario reimpostare la struttura fiscale del nostro Paese verso una maggiore giustizia sociale.
Non vogliamo più tasse, ma solo una nuova distribuzione più equa. Noi pensiamo che sia giusto che tutti paghino le tasse in proporzione ai propri redditi e tenuto conto della situazione familiare. Noi, come aveva già fatto il precedente Governo Prodi, riteniamo decisiva la lotta, senza se e senza ma, all’evasione fiscale. Per tutto questo, abbiamo presentato degli emendamenti.
Secondo: la spesa corrente. Abbiamo avanzato proposte per mettere in campo misure e interventi più rigorosi ed efficaci, per eliminare gli sprechi nella spesa pubblica a partire dai Ministeri e riequilibrando il peso della manovra tra le struttura dello Stato, le regioni e gli enti locali.
Terzo: la crescita e lo sviluppo. Tra le tante proposte per lo sviluppo, abbiamo avanzato proposte alternative ai tagli per la cultura, la scuola, l’università e la ricerca perché convinti che questi settori siano motori e fattori per la crescita, investimenti decisivi in capitale umano, l’unica materia prima che il Paese possiede.
Mi soffermo in particolare sulla scuola. Abbiamo espresso in più occasioni in Parlamento, sia in Aula che nella sede della VII Commissione permanente (Cultura), la nostra disponibilità a confrontarci con il Governo e con la maggioranza e abbiamo presentato a più riprese le nostre proposte per migliorare, innovare e per affrontare i nodi critici veri del sistema pubblico dell’istruzione in Italia. Ma ci siamo trovati di fronte ad un’assoluta indisponibilità del Governo che ha considerato il settore solo un fattore di risparmio della spesa pubblica e quindi da tagliare in modo indiscriminato. Con vere e proprie campagne mediatiche il Governo in questi due anni ha cercato di occultare i tagli e di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica su altri argomenti come, ad esempio, la campagna estiva di due anni fa sul grembiulino, mai diventato oggetto di un provvedimento; altre volte attivando vere e proprie campagne mediatiche condite da provvedimenti ideologici come quello sul maestro unico, bocciato dalle famiglie italiane, il voto in condotta, il ritorno ai voti numerici, l’esaltazione delle bocciature, presentati come panacee per risolvere i mali della scuola italiana. Misure che invece producono solo l’effetto di bloccare ancora di più l’ascensore sociale del nostro Paese perché continuano a penalizzare i bambini e i ragazzi per la loro condizione sociale, economica e di salute di partenza e non, come si vuole far credere, per premiare il merito ed talento. Di ben altro ci sarebbe bisogno per fare in modo che i nostri giovani possano acquisire quei livelli alti di saperi e di competenze necessari per competere nell’era del mondo globale e della conoscenza. Noi crediamo che occorra in primo luogo considerare l’istruzione, la formazione e la ricerca una leva fondamentale della crescita e dello sviluppo per il futuro del nostro Paese. Secondo noi è fondamentale innovare la didattica, integrare i saperi e il saper fare, collegare l’offerta formativa al territorio e al sistema produttivo, definire organici funzionali e attivare programmi di formazione permanente dei docenti, determinare condizioni di pari opportunità e premiare il merito, rafforzare la scuola pubblica di tutti e di ciascuno, garantire la sicurezza degli edifici scolastici, realizzare lo snellimento, la sburocratizzazione e la semplificazione del Ministero e degli uffici statali decentrati. Puntare sulle istituzioni scolastiche assicurando loro finanziamenti adeguati e certi per far decollare l’autonomia scolastica. Attivare un sistema di valutazione e di autovalutazione capace di affiancare e sostenere le scuole con l’obiettivo di migliorare i risultati di apprendimento dei ragazzi e di portarli a conseguire risultati sempre più alti sino all’eccellenza. Realizzare un vero e proprio patto educativo fra le scuole, le famiglie e gli studenti. Riteniamo molto importante dunque l’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione. La poca chiarezza e il mancato riconoscimento reciproco dei ruoli che spettano, rispettivamente, alle istituzioni scolastiche autonome, agli enti locali e allo Stato, impedisce una governance condivisa ed efficace così come previsto dalla Costituzione in materia di istruzione ma bloccata purtroppo dalla mancata intesa tra il Ministero e la Conferenza Stato-regioni. Secondo noi è dunque, più che mai urgente, la completa attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e che, a supporto di tale autonomia, in attuazione del Titolo V della Costituzione, vengano ridefiniti i ruoli del Ministero e delle regioni, attribuendo a livello centrale compiti fondamentali finalizzati a garantire l’unitarietà e l’alta qualità del sistema scolastico pubblico in ogni luogo del Paese e, a livello regionale e locale, la gestione completa, condivisa e partecipata dagli operatori della scuola, dalle famiglie e dagli studenti delle scuole autonome. Abbiamo presentato degli emendamenti significativi e rilevanti che vanno in questa direzione. Con l’attuazione di queste proposte si potrebbe realizzare un risparmio nel tempo di una grande quantità di risorse pubbliche, si sarebbero così potuti evitare i tagli indiscriminati attivati con il decreto-legge 22 giugno 2008, n. 112 e le misure ingiuste e vessatorie di questa manovra operata sui lavoratori della scuola.
Per concludere, signor Presidente, la nostra opposizione è certamente di critica radicale alla manovra, ma anche e soprattutto di responsabilità verso l’Italia. Per questo abbiamo avanzato proposte concrete che sono insieme di rigore e di austerità nella gestione del bilancio pubblico ma anche improntate ai principi di equità, di giustizia sociale e di costruzione di una nuova prospettiva di crescita e di futuro del Paese.
Tuttavia, l’ennesimo voto di fiducia impedirà un confronto vero in Parlamento. Noi comunque continueremo la nostra battaglia di posizione, ad essere in sintonia con i bisogni e le aspettative dei cittadini italiani, per costruire una nuova prospettiva per il nostro Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).